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Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Le condizioni lavorative in Italia dagli ultimi anni dell’Ottocento all’entrata in vigore della Costituzione




Inizialmente, l’Italia appariva decisamente arretrata dal punto di vista industriale rispetto agli altri Paesi Europei a causa, da una parte, della frammentazione politica ed economica che bloccava lo sviluppo di un efficiente mercato interno, dall’altra per la carenza di materie prime (ferro e carbone) che erano alla base dei nuovi processi industriali.

In particolare, durante il periodo del Risorgimento, il processo di industrializzazione venne condotto principalmente dall'alto e guidato da imprenditori delle regioni settentrionali, con il risultato di aumentare il divario con le regioni meno sviluppate, le quali si trovarono nella condizione di subire la concorrenza delle regioni più avanzate del Nord ed a pagare la pesante pressione fiscale.

Dopo l’Unità d’Italia, il quadro economico ed industriale del Paese mutò profondamente; a fini semplificativi è possibile distinguere tre fasi:
  • il ventennio successivo all'Unità (1861-1880), durante il quale, il Paese gettò le basi della sua crescita puntando soprattutto sull'agricoltura;
  • gli anni 1881-1896, segnati dalla crisi agraria e dalla scelta a favore dell’industrializzazione, con lo sviluppo del cosiddetto “triangolo industriale” (Torino-Milano-Genova), che coinvolse il comparto siderurgico, chimico ed automobilistico;
  • il periodo 1897-1914, durante il quale si realizzò il primo decollo industriale supportato da un forte substrato bancario e commerciale che permise di resistere alla crisi degli anni 1927-1929.
A partire dal 1914, l’Italia appariva sotto molti aspetti come un Paese industrialmente avanzato, grazie all’impulso pesante dato all'industria da parte dell'intervento statale e del sostegno bancario.

Queste industrie, tuttavia, confidando nel prestito, stipulavano accordi verticali per la vendita e l'acquisto di beni e servizi con imprese operanti ciascuna ad un livello differente della catena di produzione o di distribuzione, divenendo, così, totalmente dipendenti dalle banche e dagli aiuti statali.

Accanto ad un’Italia avanzata ed industrializzata continuava a coesistere un Paese che mostrava molteplici segnali di disorganizzazione sociale.

L’industrializzazione permise un notevole progresso economico, accompagnato, però, da un forte aumento del costo della vita, con conseguente crescita della miseria dei prestatori d’opera i cui salari erano insufficienti a soddisfare le più elementari esigenze di vita. Ciò porto i lavoratori all’ineluttabile necessità di associarsi per resistere alla “dittatura contrattuale” degli imprenditori.

Si delineò, quindi, quel complesso di fenomeni politico-economici individuati nell’espressione “questione sociale”.

Le differenze sociali e i contrasti tra le classi, connessi all’economia capitalistica, non poterono più essere ignorati dallo Stato, quando la miseria in cui versava il proletariato divenne tale da costituire una minaccia per lo stesso assetto politico instaurato e gestito dagli stessi detentori del potere economico. Lo Stato, dalla sua posizione di iniziale indifferenza, si avviò verso una più decisa tutela del contraente più debole del rapporto di lavoro. I primi interventi normativi di tutela furono nettamente repressivi poiché il legislatore dell’epoca non intese tutelare la classe operaia diseredata, bensì proteggere l’ordine sociale esistente contro le rivendicazioni che apparivano pericolose; ben presto, i pubblici poteri, però, avvertirono l’urgenza di approntare un intervento per assicurare più umane condizioni di lavoro.

Tra le principali norme approvate ricordiamo quelle dirette ad una più efficace tutela sanitaria, alla difesa degli emigranti, al lavoro delle mondine delle risaie, alla tutela delle donne e dei fanciulli, ecc …

Lo Stato, pertanto, abbandonò la sua posizione di neutralità ed assunse il compito di armonizzare e regolamentare i rapporti sia nel campo professionale e sociale che in quello economico e produttivo.

Era un fatto triste e notorio che fino a quel momento anche quel minimo di legislazione di tutela esistesse solo sulla carta, risolvendosi di fatto in una dolorosa irrisione.

Purtroppo con lo scoppio della Prima Guerra mondiale, le aziende vennero trasformate in industrie belliche e ciò costituì senz'altro una grave battuta d’arresto nella crescita del Paese.

La Grande Guerra, inoltre, fu un forte incentivo per il settore industriale più moderno, ma acuì ulteriormente le contraddizioni esistenti, causando una crisi sociale che aprì la strada all’ascesa del fascismo.

Nel periodo post-bellico che seguì la Grande Guerra, la legislazione sociale si sviluppò notevolmente, affermando, quale diritto primario del proletariato il principio di tutela dall’indigenza.

La Carta del lavoro fascista sancì l’obbligo per gli organi dello Stato di sorvegliare l’osservanza delle leggi sulla prevenzione degli infortuni e la polizia del lavoro e il successivo R.D. 28 dicembre 1931, n.1684, ne estese la funzione di vigilanza per l’attuazione di tutta la legislazione del lavoro nelle aziende industriali, commerciali, negli uffici, in agricoltura.

Significative per la tutela della salute dei lavoratori furono, inoltre, la legge 26 aprile 1934, n.653, sulla protezione delle donne e dei fanciulli, con precise disposizioni sul trasporto e sollevamento pesi, nonché il successivo R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, con il quale vennero stabilite le norme per la disciplina della ricerca e la coltivazione delle miniere.

In particolare, la legge del 1934 vietò alle donne e ai ragazzi di età inferiore ai 16 anni di calarsi all’interno delle zolfare, mentre già da qualche anno prima, nel 1927, era stata sancita per legge la demanialità del sottosuolo.

Queste come le precedenti riforme, furono importanti provvedimenti in quanto miravano a disincentivare lo sfruttamento della manodopera giovanile e minavano le basi di quel sistema di abuso della manodopera giovanile che in Sicilia imperava.

Bambini e ragazzi dai sei ai diciotto anni venivano quasi letteralmente venduti ai padroni delle miniere di zolfo secondo una formula di finanziamento che si chiamava "soccorso al morto": i genitori del bambino ricevevano in anticipo una somma di poche lire in cambio del lavoro del bimbo che sgobbando avrebbe riscattato il prestito.

I carusi erano spesso picchiati e sfruttati, e quando i pestaggi non erano sufficienti, vi era l’usanza di bruciare i polpacci delle gambe con le lanterne per rimetterli di nuovo in piedi; se avessero cercato scampo da questa schiavitù, sarebbero stati catturati e percossi, a volte anche uccisi.

Questi ragazzi schiavi lavoravano fino a 16 ore al giorno tra i bui e roventi cunicoli delle miniere, trasportando in superficie carichi di zolfo che pesavano fino a 25 chili (per più piccoli) e fino a 80 chili per i ragazzi. Tutto ciò costituiva la condizione ideale per lo sviluppo di malattie trasmissibili come le parassitosi intestinale, la pneuconiosi, la denutrizione, la tubercolosi, la malaria e varie forme di intossicazione.

Senza trascurare i rischi causati dagli incendi e disastri che si verificavano spesso nelle miniere quali: distacco di roccia, inalazione di acido solfidrico, intossicazione da CO2 .

Non si contano gli incidenti mortali nelle solfatare ma resta nella memoria quello di Gessolungo, a Caltanissetta, nel 1881: sessantacinque minatori restano uccisi per l'esplosione di una lampada ad acetilene, 19 di loro erano carusi di cui nove rimasero sconosciuti, schiavi senza nome.

La situazione più grave esisteva certamente nelle zolfare, non soltanto perché, a differenza delle miniere sarde e toscane nelle quali i bambini venivano impegnati solo nei lavori all’esterno e i giovani carusi erano sottoposti a sforzi fisici terribili, ma anche perché gli indici di mortalità erano tanto elevati da superare quelli delle stesse miniere carbonifere inglesi, francesi e belghe, strutturalmente molto pericolose.

La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, permeata di spirito sociale, rispose alle istanze più profonde del popolo italiano, espresse dai partiti che si riaffacciavano sulla scena politica del dopoguerra, in una atmosfera incandescente ricca di contrasti spirituali, sociali ed economici.

All’art. 1 l’Assemblea costituente definisce l’Italia una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, elevando, così, il lavoro, in una visione politico-programmatica, a nucleo fondamentale della struttura statuale. Emerge, inoltre, tra tutte le disposizioni costituzionali, l’art. 41 il quale, premesso che l’iniziativa economica privata è libera, afferma che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” garantendo, quindi, un’elevata qualità della vita dei lavoratori.

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