“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi
Durante la durissima esperienza del lockdown a causa dell'epidemia Covid-19, come è cambiata la tua percezione del mondo e dell'universo?
Negli anni ‘70 il matematico Edward Lorenz, uno dei pionieri della teoria del caos, spiegava come in un ecosistema complesso una piccola variazione può produrre grandi cambiamenti con la celebre locuzione “il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas”.
All’inizio di quest’anno si è scoperto che il “battito d’ali”, probabilmente di un pipistrello in un mercato della cittadina cinese Wuhan, è il Covid-19, il quale ha prodotto uno sconvolgimento epocale e globale, molto più grave di un semplice “tornado in Texas”.
Il virus è entrato prepotentemente negli ingranaggi delle nostre vite, delle istituzioni e dell’economia globale mandandoli in crisi.
Inizialmente si pensava che il cambiamento più grande fosse sull’andare o meno al ristorante cinese, poi si è immediatamente compreso che è diventato sull’andare a lavorare, sull’uscire di casa e sull’abbracciare i nostri cari.
Nella primavera del 2020, così, l’intera umanità si è trovata a fronteggiare una pandemia provocata dal Covid-19.
Tristemente sta avvenendo quello che il Papa ha constatato nella sua enciclica ecologica “Laudato si’ ”: “mai abbiamo maltrattato e ferito la nostra Casa Comune come negli ultimi due secoli”.
La velocità del modello di accumulazione della ricchezza è talmente devastante che, a giudizio di alcuni scienziati, abbiamo inaugurato una nuova era geologica: quella dell’antropocene, secondo la quale l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale che globale dagli effetti dell’azione umana.
Questa aggressione da parte dell’uomo è così violenta che ogni anno più di mille specie di esseri viventi si estinguono, inaugurando il necrocene: l’era di produzione in massa di morte.
James Lovelock, colui che ha formulato la teoria della Terra come un superorganismo vivente (detto Gaia), nel suo libro “La rivolta di Gaia” sostiene che: “ le attuali malattie come la dengue, la chikungunya, il virus Zika, la Sars, l’Ebola, il morbillo, o l’attuale Coronavirus e la generale degradazione delle relazioni umane, marcate per la profonda disuguaglianza/ingiustizia sociale o per la mancanza della solidarietà minima, siano una rappresaglia di Gaia per le offese che ininterrottamente le infliggiamo”.
Non a caso, il Coronavirus è esploso in Cina, dove l’inquinamento è maggiore. “Gaia”, come Grande Madre, non si vendica, ma manda dei severi segni per indicarci che è malata (tifoni, scioglimento delle calotte polari, siccità e inondazioni), e che, ancora una volta, non abbiamo imparato la lezione.
A cosa serve tutta questa sofferenza allora?
Leopardi ci aveva avvertito: la Natura è matrigna, indifferente alla vita dell’uomo e delle sue creature, capace di distruggere tutto, anche se stessa, con la lava di un vulcano. Noi non possiamo fare altro che “chinare il capo” come una piccola ginestra indifesa e “accettare la nostra sorte comune” (“La ginestra”).
Quindi, nella serie di catastrofi naturali, ovvero quegli avvenimenti distruttivi che noi non possiamo prevedere o controllare, bisogna annoverare anche le epidemie. Arrendiamoci alla nostra “sfortuna” di essere qui sulla Terra in questo momento, come hanno fatto gli sfortunati di passaggio sulla Terra tra il 1347 e il 1353 con la Peste Nera, o tra il 1918 e il 1920, anni dell’influenza Spagnola; moltissimi sono stati i morti, ma la grande comunità umana è riuscita nel suo intento non resistendo ma adattandosi.
È ciò che, in fondo, viene chiesto anche a noi oggi, ovvero mutare i nostri ritmi vitali e l’approccio nei confronti dell’altro.
Durante il lockdown abbiamo sperimentato una convivenza non intervallata da attività lavorative o extrafamiliari, una situazione che ha fatto da cassa di risonanza a emozioni spiacevoli come la paura.
Essa è un’emozione vissuta in relazione ad una minaccia all’incolumità, che stimola uno stato di attivazione psicologica e fisica funzionale alla risposta difensiva. Tale stato di attivazione è fondamentale perché permette di mantenere un elevato livello di attenzione, una migliore prontezza dei muscoli, una minore percezione del dolore e così via (D’urso e Trentin, 2007).
Questo stato di tensione, abbastanza faticoso da mantenere per troppo tempo, muta in un graduale rilassamento quando scompare la minaccia (Plutchick, 1994). E’ la sensazione di sollievo che, ad esempio, in questo periodo abbiamo provato al rientro a casa, posando finalmente lo scudo e liberandoci delle fastidiose mascherine.
Se la paura è vissuta in relazione a una minaccia, in questo momento storico quella principale è rappresentata dal nuovo Coronavirus, che veste i panni dell’altro indistintamente: il passante, il collega, il coniuge.
Esso è una minaccia difficile da confinare perché mancano i cosiddetti segnali di pericolo, quegli elementi che permettono al nostro cervello di capire quando prestare attenzione e quando, invece, rilassarsi, col rischio di vivere in un costante stato di tensione emotiva.
Progressivamente torniamo a calcare le strade e, sebbene ci sforzeremo di evitare assembramenti e strette di mano, saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate in cui sarà inevitabile stabilire un maggior numero di contatti.
Il più frequente passaggio tra il fuori del mondo esterno e il dentro della nostra abitazione renderà più complicato delimitare il pericolo e la casa potrebbe perdere la sua importante funzione di “base sicura”. Se fino ad oggi hanno assunto un “colore” diverso i rapporti con il vicinato, possiamo aspettarci che accadrà qualcosa di simile anche nelle relazioni familiari.
In questo difficile adattamento basteranno il distanziamento sociale, le mascherine e il lavaggio delle mani, a tutelare spazi – intra ed extrapsichici – di sicurezza?
La paura diventa, così, il fondamento di un’epidemia e permette all’essere umano di restare, fermarsi e di adattarsi per sopravvivere.
Egli deve adattare il proprio stile di vita a nuove esigenze, adattare la ricerca scientifica a nuove cure e vaccini; in poche parole, regredire paradossalmente a quella mentalità più ancestrale e ferina.
Non ci vuole la lungimiranza (quella che avremmo dovuto avere immediatamente quando ci è stato chiesto di restare in casa) per capire quanto sia grande l’impatto psicologico di tutto questo.
Nel giro di un mese l’uomo è passato dal doversi muovere nel mondo e nei propri impegni quotidiani al non poterlo più fare, dapprima con noia, inquietudine ed, infine, con terrore.
L’uomo, in questo periodo, ha stravolto l’approccio interpersonale che deriva dal proprio bagaglio culturale: è cambiata la percezione della distanza, del modo di salutare, del prestare un oggetto, del preparare e regalare un dolce.
Il mondo al tempo del Coronavirus è diventato più grande, le distanze sono diventate più lunghe.
L’America, seppure dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, era un luogo molto vicino al momento, ma adesso con il blocco dei voli e l’imposizione di misure restrittive, le distanze si sono allungate.
L’estate man mano si avvicina e ancora non si sa come verrà trascorsa.
Nel frattempo c’è chi si rifugia nelle azioni quotidiane, chi si rifugia nei ricordi, chi nella speranza del futuro, chi si rimette a Dio.
Resteranno per sempre impresse nella nostra memoria le immagini toccanti del Papa che prega da solo di fronte ad una platea vuota nella maestosa piazza del Vaticano, intento a chiedere la fine della malattia, la serenità, pietà a Dio.
È la stessa solitudine di un anziano nella sua stanza da letto che, ogni sera, sgrana un rosario pregando per la sua famiglia. Ogni uomo, in rapporto al contesto in cui vive, porta sulle spalle una responsabilità spirituale di ugual peso.
La preghiera che ogni essere umano sta compiendo in questo periodo non deve essere intesa come una richiesta. La preghiera non è mai una richiesta, “è un’energia che mandiamo nell’universo, è uno sforzo attivo e sottile, che non sempre si manifesta come si vorrebbe”. La preghiera è responsabilità, è il credere in qualcosa di superiore che abita dentro di noi.
In questa emergenza sanitaria, esplorata la più bassa condizione fisica dell’essere umano (attaccato ad un respiratore in ospedale), dopo aver “toccato il fondo” come si dice, l’uomo ha la necessità di “risalire”.
All’inizio di quest’anno si è scoperto che il “battito d’ali”, probabilmente di un pipistrello in un mercato della cittadina cinese Wuhan, è il Covid-19, il quale ha prodotto uno sconvolgimento epocale e globale, molto più grave di un semplice “tornado in Texas”.
Il virus è entrato prepotentemente negli ingranaggi delle nostre vite, delle istituzioni e dell’economia globale mandandoli in crisi.
Inizialmente si pensava che il cambiamento più grande fosse sull’andare o meno al ristorante cinese, poi si è immediatamente compreso che è diventato sull’andare a lavorare, sull’uscire di casa e sull’abbracciare i nostri cari.
Nella primavera del 2020, così, l’intera umanità si è trovata a fronteggiare una pandemia provocata dal Covid-19.
Tristemente sta avvenendo quello che il Papa ha constatato nella sua enciclica ecologica “Laudato si’ ”: “mai abbiamo maltrattato e ferito la nostra Casa Comune come negli ultimi due secoli”.
La velocità del modello di accumulazione della ricchezza è talmente devastante che, a giudizio di alcuni scienziati, abbiamo inaugurato una nuova era geologica: quella dell’antropocene, secondo la quale l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale che globale dagli effetti dell’azione umana.
Questa aggressione da parte dell’uomo è così violenta che ogni anno più di mille specie di esseri viventi si estinguono, inaugurando il necrocene: l’era di produzione in massa di morte.
James Lovelock, colui che ha formulato la teoria della Terra come un superorganismo vivente (detto Gaia), nel suo libro “La rivolta di Gaia” sostiene che: “ le attuali malattie come la dengue, la chikungunya, il virus Zika, la Sars, l’Ebola, il morbillo, o l’attuale Coronavirus e la generale degradazione delle relazioni umane, marcate per la profonda disuguaglianza/ingiustizia sociale o per la mancanza della solidarietà minima, siano una rappresaglia di Gaia per le offese che ininterrottamente le infliggiamo”.
Non a caso, il Coronavirus è esploso in Cina, dove l’inquinamento è maggiore. “Gaia”, come Grande Madre, non si vendica, ma manda dei severi segni per indicarci che è malata (tifoni, scioglimento delle calotte polari, siccità e inondazioni), e che, ancora una volta, non abbiamo imparato la lezione.
Théodore Monod, uno dei più grandi naturalisti contemporanei, nel suo libro “E se l’avventura umana dovesse fallire?” ha scritto: “Siamo capaci di una condotta insensata e demente: si può, a partire d’adesso, temere tutto, anche l’annichilimento della razza umana; sarebbe il giusto prezzo della nostra pazzia e della nostra crudeltà”.
Secondo gli studiosi che coltivano un’ecologia integrale, tutti gli esseri viventi dell’Universo e della Terra sono avvolti in reti intricate di relazioni casuali, al punto che nulla esiste al di fuori della relazione.
Gli astronauti hanno avuto la medesima percezione dalle loro navicelle spaziali: Terra e Umanità costituiscono un’unica entità.
Questo lo sapevano anche i popoli originari, così come veniva sottolineato dal capo indiano Seattle già nel 1856: “Di una cosa possiamo essere certi: la Terra non appartiene all’uomo. È l’uomo che appartiene alla terra. Tutte le cose sono interconnesse, così come il sangue o una famiglia: l’uno con l’altro è messo in relazione. Ciò che ferisce la terra, ferisce anche i figli o le figlie della terra. Non è stato l’uomo a formulare la trama della vita: l’uomo è un mero figlio della stessa. Tutto ciò che l’uomo fa a questa trama, lo fa a se stesso”.
Così come Terra e Umanità sono interconnesse, la produzione in massa di morte ha luogo non solo nella sfera naturale, ma anche in quella dell’umanità.
Milioni di persone nel mondo muoiono di fame, di sete, vittime della violenza bellica o sociale provocata dagli altri uomini.
La specie che sopravvive, purtroppo, è quella che si adatta, quella che cambia, ma anche quella che impara dalla storia.
Secondo Giambattista Vico, la storia è fatta di “corsi e ricorsi”, ovvero grandi e piccoli avvenimenti si ripresentano ciclicamente nel mondo, come le lancette di un orologio che percorrono i quadranti.
Pensare all’ “hic et nunc”, al qui ed ora, tuttavia, è una proprietà intrinseca nella natura umana, attraverso la quale l’uomo mette se stesso e la sua epoca al centro della storia del mondo; se non fosse così, l’uomo probabilmente si arrenderebbe allo scorrere del tempo.
Dall’altro lato, però, in questo modo, l’uomo ritiene un unicum, un qualcosa di irripetibile, tutto ciò che gli accade o che riguarda la società a lui contemporanea.
Ogni giorno che passa, ogni contagio comunicato, ogni paziente deceduto ci ha trasmesso l’impressione che sia stato compiuto un ulteriore passo verso la fine del mondo.
Gli astronauti hanno avuto la medesima percezione dalle loro navicelle spaziali: Terra e Umanità costituiscono un’unica entità.
Questo lo sapevano anche i popoli originari, così come veniva sottolineato dal capo indiano Seattle già nel 1856: “Di una cosa possiamo essere certi: la Terra non appartiene all’uomo. È l’uomo che appartiene alla terra. Tutte le cose sono interconnesse, così come il sangue o una famiglia: l’uno con l’altro è messo in relazione. Ciò che ferisce la terra, ferisce anche i figli o le figlie della terra. Non è stato l’uomo a formulare la trama della vita: l’uomo è un mero figlio della stessa. Tutto ciò che l’uomo fa a questa trama, lo fa a se stesso”.
Così come Terra e Umanità sono interconnesse, la produzione in massa di morte ha luogo non solo nella sfera naturale, ma anche in quella dell’umanità.
Milioni di persone nel mondo muoiono di fame, di sete, vittime della violenza bellica o sociale provocata dagli altri uomini.
La specie che sopravvive, purtroppo, è quella che si adatta, quella che cambia, ma anche quella che impara dalla storia.
Secondo Giambattista Vico, la storia è fatta di “corsi e ricorsi”, ovvero grandi e piccoli avvenimenti si ripresentano ciclicamente nel mondo, come le lancette di un orologio che percorrono i quadranti.
Pensare all’ “hic et nunc”, al qui ed ora, tuttavia, è una proprietà intrinseca nella natura umana, attraverso la quale l’uomo mette se stesso e la sua epoca al centro della storia del mondo; se non fosse così, l’uomo probabilmente si arrenderebbe allo scorrere del tempo.
Dall’altro lato, però, in questo modo, l’uomo ritiene un unicum, un qualcosa di irripetibile, tutto ciò che gli accade o che riguarda la società a lui contemporanea.
Ogni giorno che passa, ogni contagio comunicato, ogni paziente deceduto ci ha trasmesso l’impressione che sia stato compiuto un ulteriore passo verso la fine del mondo.
A cosa serve tutta questa sofferenza allora?
Leopardi ci aveva avvertito: la Natura è matrigna, indifferente alla vita dell’uomo e delle sue creature, capace di distruggere tutto, anche se stessa, con la lava di un vulcano. Noi non possiamo fare altro che “chinare il capo” come una piccola ginestra indifesa e “accettare la nostra sorte comune” (“La ginestra”).
Quindi, nella serie di catastrofi naturali, ovvero quegli avvenimenti distruttivi che noi non possiamo prevedere o controllare, bisogna annoverare anche le epidemie. Arrendiamoci alla nostra “sfortuna” di essere qui sulla Terra in questo momento, come hanno fatto gli sfortunati di passaggio sulla Terra tra il 1347 e il 1353 con la Peste Nera, o tra il 1918 e il 1920, anni dell’influenza Spagnola; moltissimi sono stati i morti, ma la grande comunità umana è riuscita nel suo intento non resistendo ma adattandosi.
È ciò che, in fondo, viene chiesto anche a noi oggi, ovvero mutare i nostri ritmi vitali e l’approccio nei confronti dell’altro.
Durante il lockdown abbiamo sperimentato una convivenza non intervallata da attività lavorative o extrafamiliari, una situazione che ha fatto da cassa di risonanza a emozioni spiacevoli come la paura.
Essa è un’emozione vissuta in relazione ad una minaccia all’incolumità, che stimola uno stato di attivazione psicologica e fisica funzionale alla risposta difensiva. Tale stato di attivazione è fondamentale perché permette di mantenere un elevato livello di attenzione, una migliore prontezza dei muscoli, una minore percezione del dolore e così via (D’urso e Trentin, 2007).
Questo stato di tensione, abbastanza faticoso da mantenere per troppo tempo, muta in un graduale rilassamento quando scompare la minaccia (Plutchick, 1994). E’ la sensazione di sollievo che, ad esempio, in questo periodo abbiamo provato al rientro a casa, posando finalmente lo scudo e liberandoci delle fastidiose mascherine.
Se la paura è vissuta in relazione a una minaccia, in questo momento storico quella principale è rappresentata dal nuovo Coronavirus, che veste i panni dell’altro indistintamente: il passante, il collega, il coniuge.
Esso è una minaccia difficile da confinare perché mancano i cosiddetti segnali di pericolo, quegli elementi che permettono al nostro cervello di capire quando prestare attenzione e quando, invece, rilassarsi, col rischio di vivere in un costante stato di tensione emotiva.
Progressivamente torniamo a calcare le strade e, sebbene ci sforzeremo di evitare assembramenti e strette di mano, saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate in cui sarà inevitabile stabilire un maggior numero di contatti.
Il più frequente passaggio tra il fuori del mondo esterno e il dentro della nostra abitazione renderà più complicato delimitare il pericolo e la casa potrebbe perdere la sua importante funzione di “base sicura”. Se fino ad oggi hanno assunto un “colore” diverso i rapporti con il vicinato, possiamo aspettarci che accadrà qualcosa di simile anche nelle relazioni familiari.
In questo difficile adattamento basteranno il distanziamento sociale, le mascherine e il lavaggio delle mani, a tutelare spazi – intra ed extrapsichici – di sicurezza?
La paura diventa, così, il fondamento di un’epidemia e permette all’essere umano di restare, fermarsi e di adattarsi per sopravvivere.
Egli deve adattare il proprio stile di vita a nuove esigenze, adattare la ricerca scientifica a nuove cure e vaccini; in poche parole, regredire paradossalmente a quella mentalità più ancestrale e ferina.
Non ci vuole la lungimiranza (quella che avremmo dovuto avere immediatamente quando ci è stato chiesto di restare in casa) per capire quanto sia grande l’impatto psicologico di tutto questo.
Nel giro di un mese l’uomo è passato dal doversi muovere nel mondo e nei propri impegni quotidiani al non poterlo più fare, dapprima con noia, inquietudine ed, infine, con terrore.
L’uomo, in questo periodo, ha stravolto l’approccio interpersonale che deriva dal proprio bagaglio culturale: è cambiata la percezione della distanza, del modo di salutare, del prestare un oggetto, del preparare e regalare un dolce.
Il mondo al tempo del Coronavirus è diventato più grande, le distanze sono diventate più lunghe.
L’America, seppure dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, era un luogo molto vicino al momento, ma adesso con il blocco dei voli e l’imposizione di misure restrittive, le distanze si sono allungate.
L’estate man mano si avvicina e ancora non si sa come verrà trascorsa.
Nel frattempo c’è chi si rifugia nelle azioni quotidiane, chi si rifugia nei ricordi, chi nella speranza del futuro, chi si rimette a Dio.
Resteranno per sempre impresse nella nostra memoria le immagini toccanti del Papa che prega da solo di fronte ad una platea vuota nella maestosa piazza del Vaticano, intento a chiedere la fine della malattia, la serenità, pietà a Dio.
È la stessa solitudine di un anziano nella sua stanza da letto che, ogni sera, sgrana un rosario pregando per la sua famiglia. Ogni uomo, in rapporto al contesto in cui vive, porta sulle spalle una responsabilità spirituale di ugual peso.
La preghiera che ogni essere umano sta compiendo in questo periodo non deve essere intesa come una richiesta. La preghiera non è mai una richiesta, “è un’energia che mandiamo nell’universo, è uno sforzo attivo e sottile, che non sempre si manifesta come si vorrebbe”. La preghiera è responsabilità, è il credere in qualcosa di superiore che abita dentro di noi.
In questa emergenza sanitaria, esplorata la più bassa condizione fisica dell’essere umano (attaccato ad un respiratore in ospedale), dopo aver “toccato il fondo” come si dice, l’uomo ha la necessità di “risalire”.
Non avverrà dall’oggi al domani, servirà tempo per metabolizzare ciò che abbiamo attraversato.
Ci godremo il recupero e il tempo, dopo anni di corse e affanni tipiche della nostra epoca, di assaporare la lentezza della risalita, di ripartire daccapo o invertire una presunta tabella di marcia.
Ci godremo il recupero e il tempo, dopo anni di corse e affanni tipiche della nostra epoca, di assaporare la lentezza della risalita, di ripartire daccapo o invertire una presunta tabella di marcia.
Tutto questo ricominciare è possibile solo perché c’è stato un “prima”. Non possiamo dimenticare ciò che abbiamo passato, bisogna anzi farne tesoro: prendiamo la vita come la conoscevamo fino a pochi mesi fa e facciamone una tesi; prendiamo la vita durante il Coronavirus e rendiamola un’antitesi. Con un po’ di quella “magia” che chiamano matematica, facciamo una somma, anzi, una media ponderata del tutto e traiamo la nostra sintesi.
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