“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi
La pandemia da Coronavirus ha fatto riemergere le vecchie divisioni e qualche egoismo che tuttora affliggono l'Unione Europea. Che cosa manca a detta Unione Europea per diventare la grande ed efficiente istituzione sovranazionale che tutti sogniamo?
Sono passati ormai tre mesi dalla notizia del primo paziente italiano affetto da Covid–19 (acronimo di CoronaVirus-Disease (malattia) 19 (anno di identificazione del virus)), la malattia respiratoria acuta causata dal nuovo coronavirus proveniente da Wuhan (Cina).
Da quel momento, che appare ormai lontanissimo, il governo ha dovuto prendere decisioni difficili: sono stati fatti alcuni errori, è stato elogiato il lavoro di medici e infermieri e, purtroppo, sono stati pianti molti morti.
Ci sarà tempo per valutare come l’Italia ha gestito questa emergenza da più punti di vista, ma già ora sembra evidente un mesto e critico fatto: il progetto europeo si è dimostrato debole.
Ancora una volta, non solo l’emergenza sanitaria non è stata gestita attraverso la collaborazione degli Stati dell’UE, ma è stata persa l’occasione per rafforzare quell’identità europea che appare così flebile nella percezione dei cittadini che abitano il Vecchio Continente.
Se la pandemia e la conseguente quarantena forzata sono stati la scintilla che ci ha permesso di recuperare il senso di comunità all’interno del nostro Paese, non si può dire altrettanto di ciò che rimane della nostra appartenenza europea.
In un articolo accademico divenuto famoso tra gli studiosi del settore, Peter Mair definisce l’Unione Europea come «a polity without politics», un’organizzazione internazionale all’interno della quale avvengono discussioni di natura amministrativa, finanziaria, giuridica, ma non politica.
Purtroppo più volte l’Unione Europea ha dato prova della sua natura amministrativa e della sua incapacità di fungere da guida politica per i suoi Stati membri.
Se questa organizzazione è nata con lo scopo di tutelare gli interessi dei suoi Stati membri al cospetto di colossi come Cina e Stati Uniti, più volte è apparsa impotente di fronte ad altre emergenze come immigrazione, cambiamento climatico, impatto digitale.
In questi casi, i governi dei singoli Paesi europei sono stati costretti a prendere delle decisioni alimentando, così, un conflitto perenne tra visioni differenti riguardo a temi che necessiterebbero di un approccio comune e coordinato. Una delle conseguenze è stata, di fatto, l’indebolimento dell’identità di cittadini che continuano a sentirsi prima italiani, spagnoli, francesi e poi europei.
In diverse occasioni, i partiti populisti hanno sfruttato questa mancanza per rivolgere attacchi diretti non tanto alle politiche approvate all’interno dell’UE, quanto al progetto europeo stesso, affermando di voler indire un referendum nei propri Paesi per poter uscire da questa comunità.
Nella percezione dei cittadini europei l’Unione Europea appare come una sorta di organismo di controllo e di sostegno, quasi mai come un luogo per un confronto politico; pertanto, l’opinione pubblica si polarizza tra chi è a favore o contro l’esistenza stessa di questo organismo.
I media, addirittura, secondo il volume “European Identities: what the media say” curato da P. Bailey e G. Williams, tendono a trattare l’Unione Europea e, in generale, l’Europa come un’entità estranea, seppur con differenze tra i diversi Stati membri.
Riguardo a questa tematica, i media affermano che in Italia “il “noi” europeo è molto meno presente rispetto agli altri Stati”.
Il peso degli Stati nazionali, infatti, è ancora forte e soprattutto la costruzione dell’identità di un popolo passa attraverso diverse tappe fondamentali. L’Italia, per esempio, ha imparato a conoscersi in trincea nelle due grandi guerre del Novecento, in fabbrica, nelle contestazioni di piazza. Del resto, “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” diceva Massimo d’Azeglio nel 1861.
Non è pensabile, dunque, fare gli europei quando ancora non si è fatta l’Europa, ossia quando ancora l’Unione Europea mantiene un semplice ruolo amministrativo, legato soprattutto all’economia, alla finanza e al commercio.
Per fare l’Europa, però, è necessario che i più importanti leader politici degli Stati membri diano dei segnali ai propri cittadini, prendano decisioni comuni, dimostrino di marciare nella stessa direzione.
Questa pandemia ha mostrato la disfunzionalità di un modello d’integrazione europea centrato su una divisione strutturale tra Paesi del “centro” e della “periferia”.
Secondo alcuni esperti del settore, la fragilità dell’Europa discende dal modello di crescita e dall’assetto istituzionale che l’Unione Europea (UE) e l’Unione Monetaria Europea (UME) si sono date a partire dalla loro costituzione. Al posto di realizzare la finalità costitutiva dell’Unione (promuovere comunione fra i popoli e convergenza, armonizzazione tra le economie) si va a creare una profonda e crescente divergenza tra “centro” e “periferia”.
Il “centro” (imperniato attorno alla Germania) ha accresciuto la propria capacità produttiva, tecnologica e di crescita, mentre le due “periferie”, quella meridionale composta dalle economie mediterranee (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e quella centro-orientale, con un ruolo preminente delle economie del “patto di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), mostrano delle fragilità che si risolvono, però, in una condizione di dipendenza economica e finanziaria dal “centro”.
Un’altra questione che ha messo a dura prova questa fragile organizzazione internazionale è stata la gestione del fenomeno migratorio. Essa ha sollevato solo contrasti tra chi preferisce erigere muri e delimitare confini con del filo spinato e chi, invece, opta per una condivisione sull’intero territorio europeo delle richieste d’asilo.
L’emergenza sanitaria che si sta vivendo è l’ennesima prova della debolezza del “noi” europeo, in quanto non sono stati presi dei provvedimenti comuni sin dall’inizio e, poi, non si è instaurata quella “social catena” (tanto auspicata da Giacomo Leopardi) tra i leader politici in modo da sostenere le zone in maggior difficoltà con l’approvvigionamento di strumenti utili a superare l’emergenza come mascherine e respiratori.
Si vedono emergere le contraddizioni più profonde del nostro tempo: da un lato la globalizzazione e il flusso continuo di persone, prodotti, idee; dall’altra, la tendenza all’isolamento, la paura dell’altro, la mancanza di fiducia e la rottura delle reti sociali. Gli effetti saranno drammatici e duraturi, soprattutto per chi vive ai margini, con il rischio di vedere ulteriormente ampliarsi le disuguaglianze economiche, sociali e culturali che attanagliano i Paesi della “periferia” come l’Italia.
Questa possibilità, tuttavia, non sembra condurre i governi dell’Unione verso una ragionevole e operativa coesione; infatti, si assiste a una comunità internazionale, se non smarrita, che si muove a due velocità diverse.
Purtroppo, secondo alcuni studiosi, questa problematica già è stata riscontrata durante il periodo (che non è ancora terminato) della crisi finanziaria del 2008.
L’Europa, in quel momento, si è mostrata il luogo dove le crisi globali mutano (un po’ come fanno i virus) divenendo regionali e trasformandosi in minacce esistenziali per l’intero progetto di integrazione europea.
Nel contesto istituzionale dell’eurozona, la crisi finanziaria si è presto trasformata in una crisi dei debiti sovrani, che ha trascinato con sé le banche.
La soluzione prospettata è stata l’austerità e il taglio, soprattutto, agli investimenti pubblici ed alle spese sociali.
Nei seguenti grafici, realizzati dall’Eurostat, mostrano l’evoluzione nel periodo 2008-2018 della spesa pubblica in istruzione e sanità (distinta in spese generali e specificamente legate ad attività ospedaliere), in Germania e nella “periferia” meridionale, illustrando in modo netto il processo di divaricazione tra i Paesi della “periferia” e quelli del “centro”.
Il primo approdo europeo per il Coronavirus è stata la “periferia” meridionale e, in particolare, l’Italia.
I pesanti ed immediati effetti sanitari ed economici del virus hanno messo in risalto tutta la fragilità della “periferia” ed emergono, nella loro brutale concretezza, gli effetti dell’austerità e dei tagli che, dal 2010 in poi, hanno interessato tutti i capitoli di spesa, compresa la sanità.
Si manifestano, inoltre, le ripercussioni del processo di indebolimento della capacità produttiva nella “periferia” meridionale e di un decentramento internazionale della produzione che, inseguendo la logica del minor costo, ha reso estremamente vulnerabile la produzione basata su lunghissime catene globali del valore.
L’emergenza rende chiaro cosa significa perdere la capacità di produrre, sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi, ciò di cui si ha bisogno in tempi rapidi (dispositivi di protezione individuale, respiratori, medicinali).
Oltre a mietere vittime e a mettere sotto un’incredibile pressione i sistemi sanitari della “periferia” e dell’Europa intera, il Coronavirus comporta nell’immediato un enorme crollo della produzione e dei redditi e una gigantesca pressione sulle finanze pubbliche di tutti gli Stati.
L’ossessione per la competitività e la promozione di un modello di crescita guidato in via prevalente dalle esportazioni hanno rappresentato una costante del processo di integrazione europeo degli ultimi decenni. Nella retorica che ha accompagnato il processo di “europeizzazione”, l’enfasi sui settori “tradable” (un bene o un servizio che può essere venduto in un luogo distante da quello in cui viene prodotto) e la minore importanza attribuita ai settori “non-tradable” (casa, sanità, istruzione, servizi…) hanno alla lunga favorito un contesto in cui il divario tra Paesi centrali e Paesi periferici si è allargato e le dinamiche di polarizzazione ed impoverimento all’interno degli stessi Paesi si sono radicalizzate.
Se la crisi del 2008 aveva già messo in luce l’insostenibilità di questo modello e la necessità di un cambiamento di rotta, la crisi determinata dall’emergenza Coronavirus pone i Paesi europei di fronte a scelte ancor più radicali.
La risposta dei singoli Paesi alla crisi sanitaria e produttiva potrebbe mettere in crisi il modello di organizzazione globale della produzione come si è sviluppato finora e minacciare la sopravvivenza stessa del modello europeo. Allora gli esperti del settore cercano di rispondere ad un importante quesito: quali scenari si potrebbero prospettare per “centro” e “periferie” europee dopo l’emergenza sanitaria provocata da Covid-19?
Di fronte alla crescente diffusione del virus, le reazioni protezionistiche e/o improntate a politiche del tipo “beggar thy neighbours” (“politica del rubamazzo”- produce benefici unicamente al Paese che li adotta e che provocano danni agli altri) da parte di alcuni governi – il divieto di esportare materiale sanitario o la continuazione della produzione in alcuni settori per sottrarre quote di mercato a Paesi che hanno deciso di interrompere l’attività in quegli stessi settori – sono sintomatiche delle difficoltà di intraprendere un’azione coordinata a livello internazionale per contrastare i limiti della frammentazione produttiva sul piano globale.
Nei confronti dell’emergenza sanitaria, i Paesi europei si sono mossi in ordine sparso, in particolare l’Italia che, essendo stata la prima flagellata dal Coronavirus, ha intrapreso rigide misure di isolamento della popolazione; la Spagna ha adottato dei provvedimenti in ritardo rispetto alla gravità della sua situazione; la Germania, invece, conta sul suo sistema sanitario per effettuare test a tappeto e, eventualmente, procedere con la geo-localizzazione della popolazione contagiata o a rischio di contagio.
Eppure, di fronte a uno shock simmetrico di questa portata – sanitario ed economico, dal lato della domanda e dell’offerta – ci si sarebbe aspettati un maggior coordinamento tra i Paesi dell’Ue. Di fronte alla richiesta di emissione di Eurobond da parte dei Paesi della “periferia” meridionale per finanziare misure straordinarie di sostegno alle famiglie e alle imprese, i Paesi del Nord Europa (Austria, Germania, Olanda, Finlandia) hanno opposto un rifiuto, confermando nuovamente l’impossibilità della mutualizzazione dei debiti (e dei rischi) all’interno di un’unione monetaria “difettosa”, in cui sovranità monetaria e poteri fiscali dello Stato sono rigidamente separati.
In questa situazione, i Paesi europei (in particolare, quelli aderenti all’UME) si trovano di fronte a un bivio: o sciogliere l’Unione o riformarla radicalmente. Quest’ultima opzione richiede delle trasformazioni concernenti la governance fiscale e monetaria dell’Unione che interessano quattro elementi cruciali: espansione del mercato interno tedesco ed europeo, bilanciamento della capacità produttiva all’interno dell’Unione, parziale riconversione industriale verso settori finalizzati al soddisfacimento di bisogni sociali (quali istruzione, sanità e cura) e accorciamento delle catene del valore. Il possibile passaggio da una piattaforma industriale pensata per l’esportazione a una per il mercato interno (una sorta di passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace) viene interpretato dagli esperti come un’utopia. Sarebbe però interessante riscoprire e sperimentare, nel caso dell’Europa, quella globalizzazione guidata dallo Stato, pensata dall’economista svedese Gunnar Myrdal, in cui vengono valorizzate le complementarità produttive tra Paesi senza danneggiare le conquiste dello stato sociale.
Per giungere ad un radicale cambiamento dell’attuale sistema-mondo, quindi, occorre una nuova “rivoluzione copernicana”.
Con grandi difficoltà si accettò il fatto che la Terra non fosse il centro dell’universo; vi è la necessità ora di porre al centro non più l’interesse di chi esercita il potere: l’interesse generale deve divenire il centro intorno a cui ruotano i “pianeti” che ubbidiscono alle leggi naturali, al bene comune che garantisce la continuità e il movimento in un reale progresso.
La sanità, la scuola, il lavoro, la casa, la cultura, il tempo libero, i diritti, la ricerca, l’accoglienza… non devono essere mai più i satelliti intorno al sole del potere politico, economico, religioso, culturale… ma il fulcro intorno a cui ruota l’esistenza, il presente e il futuro.
Non è più possibile, inoltre, limitarsi a guardare solo la “propria terra”, perché ci sono intrecci indivisibili dai quali dipende il futuro del mondo; non è possibile isolarsi attraverso la chiusura delle frontiere e rifiutare tutto ciò che ne è fuori perché se è prioritario come interesse generale “l’Italia, per gli italiani, la Francia per i francesi, gli americani per gli USA” … non si va da nessuna parte!
Che tipo d’interesse generale è servirsi del Covid-19 come occasione per lavarsi le mani di fronte a emergenze divenute “tragiche normalità”?
Quante mascherine, guanti, tute protettive, tamponi, strumenti di terapia intensiva, ricercatori e scienziati, personale sanitario… potevano esserci per salvare un numero enorme di persone con i soldi “gettati” in strumenti di morte (droni, esercito, aerei militari) che non “saziano” la vita?
Non vale sempre, allora, “prima gli italiani” perché agli italiani ammalati e morti, servivano ora ben altre scelte politiche ed economiche!
La politica deve essere capace di coagulare la società, di far emergere quanto è comune a tutti, ben al di là del comune pericolo per la vita e la salute, in un processo di continua crescita verso il “generale”.
Crisi economiche, migrazioni, terrorismo, problemi del lavoro, povertà, disuguaglianza estrema, sfruttamento dissennato dell’ambiente, distruzione dell’habitat naturale e degli ecosistemi… hanno creato profonde cicatrici, rotture nel tessuto del sistema affermatosi negli anni e a tutto ciò non sono possibili risposte parziali, “nazionali”, perché hanno origine e presentano dinamiche globali.
Essere cittadino è molto più di un documento d’identità o l’appartenenza ad una collettività: ogni essere umano fa parte di gruppi, dalla famiglia a realtà sempre più complesse.
Oggi, però, le nostre società appaiono fragili, con legami interpersonali meno stretti, con una condivisione più debole. L’emergenza sanitaria che si sta affrontando può aiutare a re-imparare a vivere in convivenza costruttiva, a dare un nuovo volto al concetto di democrazia, nella consapevolezza di non essere solo soggetti di diritti ma anche di doveri.
La democrazia si crea con la coesione sociale, al fine di realizzare progetti e aspirazioni d’interesse comune, e la partecipazione cosciente e responsabile di ognuno e di tutti.
Sovranismi, nazionalismi, populismi, tentazioni e tentativi totalitari, inquietanti misure speciali non possono dare risposte e soluzioni durature, quelle, al di là del Covid-19, che dovranno decidere il futuro della Terra e dell’umanità e porre le basi di una globalizzazione diversa e positiva per tutti.
Essenziale sarà il coinvolgimento di cittadini coscienti perché solo un forte senso civico sarà determinante sia in campo sanitario che di organizzazione sociale, in una più profonda e reale democrazia.
L’Unione Europea come organismo istituzionale, purtroppo, ha confermato la sua natura prettamente amministrativa e finanziaria, mentre i leader europei, ancora una volta, non sono riusciti a mandare un messaggio politico europeista, che alimentasse la percezione di una grande comunità di popoli europea.
I cittadini dei diversi Stati – si pensi soprattutto all’Italia – usciranno da questa emergenza consapevoli delle proprie forze, piangeranno i propri morti, e, in particolare, l’identità nazionale si rafforzerà.
L’identità europea, dunque, ne uscirà ulteriormente indebolita, e il sogno di una vera comunità di popoli sarà sempre più lontano.
Questo allarme è stato percepito anche dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale è intervenuta nel giorno in cui i leader Ue si sono confrontati per trovare un’intesa su un fondo comune per affrontare la crisi.
Durante il suo discorso, ella ha condannato l’egoismo dimostrato da alcuni Stati membri all’inizio dell’emergenza del Covid-19, affermando che: “La storia delle ultime settimane è difficile da raccontare, troppi in Europa inizialmente hanno cercato di guardare solo ai propri interessi, quando l'Europa aveva bisogno di uno spirito di unità, “ uno per tutti, tutti per uno”, troppi hanno dato una risposta solo per se stessi, e quando l'Europa doveva dimostrare che non si tratta solo di una Unione di facciata, troppi hanno rifiutato di aprire il proprio ombrello per proteggere gli altri, e le conseguenze di questa azione non coordinata hanno colpito tanti”.
Le divisioni sono note: i Paesi del Sud (Italia, Spagna e Francia) chiedono un fondo di garanzia comune (il cosiddetto Mes) per emettere degli eurobond (o “coronabond”) e avere, così, risorse per affrontare l’emergenza senza strozzare la ripresa; i Paesi del Nord, invece, hanno risposto finora “picche”.
Dinanzi a un’aula del Parlamento europeo vuota (oltre 600 deputati hanno votato per la prima volta nella storia da casa), la presidente ha ammonito: “Nell’Unione Europea siamo a un punto di svolta: o lasciamo che il virus ci divida tra ricchi e poveri, oppure agiamo insieme come un Continente più forte. Forse possiamo emergere da questa crisi più forti e migliori. Una volta passata la pandemia di Covid-19, gli europei si ricorderanno di chi c'è stato per loro e di chi non c'è stato. Si ricorderanno di chi ha agito e di quelli che non lo hanno fatto. Si ricorderanno delle decisioni che prenderemo oggi. E di quelle che non prenderemo”.
E dopo aver salutato gli “eroi”, ossia il personale medico e sanitario impegnato in prima linea, e aver ricordato che “nessuno Stato membro può gestire questa crisi da solo, è solo aiutandoci gli uni con gli altri che possiamo aiutare noi stessi”, von der Leyen ha citato Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori della Comunità Economica Europea, insieme ai francesi Jean Monnet e Robert Schuman, ad Alcide De Gasperi : “Adenauer ha detto: “La Storia è anche la somma delle cose che si sarebbero potute evitare”. Amici miei, la Storia ci guarda. Facciamo la cosa giusta insieme: con un grande cuore, non con 27 piccoli cuori. Long live Europe! Vive l'Europe!”.
Questa problematica non ha interessato solo gli esperti del settore economico e politico ma anche il Papa che, in virtù di guida spirituale, l’ha portata all’attenzione di tutti i fedeli provenienti da ogni parte del mondo prima della benedizione Urbi et Orbi, affermando che: “Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone.[…] Tra le tante aree del mondo colpite dal Coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all'Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo amato continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un'unica famiglia e si sostengano a vicenda. […] Oggi l'Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero”.
Attraverso questo discorso, Papa Francesco torna ad assegnare al Continente un ruolo centrale che aveva perso con la Guerra Fredda: Europa esempio del mondo, reggitrice dei suoi stessi popoli e modello per gli altri; una centralità che lo scorso gennaio era stata sottolineata dal segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Gallagher, in una visita al Consiglio d'Europa.
A maggior ragione, insiste oggi il Papa, “non si perda l'occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. Se si pone come alternativa l'egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, si metterà a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.
Non è il momento delle divisioni, degli egoismi, insiste Bergoglio: “Indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte”.
Da quel momento, che appare ormai lontanissimo, il governo ha dovuto prendere decisioni difficili: sono stati fatti alcuni errori, è stato elogiato il lavoro di medici e infermieri e, purtroppo, sono stati pianti molti morti.
Ci sarà tempo per valutare come l’Italia ha gestito questa emergenza da più punti di vista, ma già ora sembra evidente un mesto e critico fatto: il progetto europeo si è dimostrato debole.
Ancora una volta, non solo l’emergenza sanitaria non è stata gestita attraverso la collaborazione degli Stati dell’UE, ma è stata persa l’occasione per rafforzare quell’identità europea che appare così flebile nella percezione dei cittadini che abitano il Vecchio Continente.
Se la pandemia e la conseguente quarantena forzata sono stati la scintilla che ci ha permesso di recuperare il senso di comunità all’interno del nostro Paese, non si può dire altrettanto di ciò che rimane della nostra appartenenza europea.
In un articolo accademico divenuto famoso tra gli studiosi del settore, Peter Mair definisce l’Unione Europea come «a polity without politics», un’organizzazione internazionale all’interno della quale avvengono discussioni di natura amministrativa, finanziaria, giuridica, ma non politica.
Purtroppo più volte l’Unione Europea ha dato prova della sua natura amministrativa e della sua incapacità di fungere da guida politica per i suoi Stati membri.
Se questa organizzazione è nata con lo scopo di tutelare gli interessi dei suoi Stati membri al cospetto di colossi come Cina e Stati Uniti, più volte è apparsa impotente di fronte ad altre emergenze come immigrazione, cambiamento climatico, impatto digitale.
In questi casi, i governi dei singoli Paesi europei sono stati costretti a prendere delle decisioni alimentando, così, un conflitto perenne tra visioni differenti riguardo a temi che necessiterebbero di un approccio comune e coordinato. Una delle conseguenze è stata, di fatto, l’indebolimento dell’identità di cittadini che continuano a sentirsi prima italiani, spagnoli, francesi e poi europei.
In diverse occasioni, i partiti populisti hanno sfruttato questa mancanza per rivolgere attacchi diretti non tanto alle politiche approvate all’interno dell’UE, quanto al progetto europeo stesso, affermando di voler indire un referendum nei propri Paesi per poter uscire da questa comunità.
Nella percezione dei cittadini europei l’Unione Europea appare come una sorta di organismo di controllo e di sostegno, quasi mai come un luogo per un confronto politico; pertanto, l’opinione pubblica si polarizza tra chi è a favore o contro l’esistenza stessa di questo organismo.
I media, addirittura, secondo il volume “European Identities: what the media say” curato da P. Bailey e G. Williams, tendono a trattare l’Unione Europea e, in generale, l’Europa come un’entità estranea, seppur con differenze tra i diversi Stati membri.
Riguardo a questa tematica, i media affermano che in Italia “il “noi” europeo è molto meno presente rispetto agli altri Stati”.
Il peso degli Stati nazionali, infatti, è ancora forte e soprattutto la costruzione dell’identità di un popolo passa attraverso diverse tappe fondamentali. L’Italia, per esempio, ha imparato a conoscersi in trincea nelle due grandi guerre del Novecento, in fabbrica, nelle contestazioni di piazza. Del resto, “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” diceva Massimo d’Azeglio nel 1861.
Non è pensabile, dunque, fare gli europei quando ancora non si è fatta l’Europa, ossia quando ancora l’Unione Europea mantiene un semplice ruolo amministrativo, legato soprattutto all’economia, alla finanza e al commercio.
Per fare l’Europa, però, è necessario che i più importanti leader politici degli Stati membri diano dei segnali ai propri cittadini, prendano decisioni comuni, dimostrino di marciare nella stessa direzione.
Questa pandemia ha mostrato la disfunzionalità di un modello d’integrazione europea centrato su una divisione strutturale tra Paesi del “centro” e della “periferia”.
Secondo alcuni esperti del settore, la fragilità dell’Europa discende dal modello di crescita e dall’assetto istituzionale che l’Unione Europea (UE) e l’Unione Monetaria Europea (UME) si sono date a partire dalla loro costituzione. Al posto di realizzare la finalità costitutiva dell’Unione (promuovere comunione fra i popoli e convergenza, armonizzazione tra le economie) si va a creare una profonda e crescente divergenza tra “centro” e “periferia”.
Il “centro” (imperniato attorno alla Germania) ha accresciuto la propria capacità produttiva, tecnologica e di crescita, mentre le due “periferie”, quella meridionale composta dalle economie mediterranee (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e quella centro-orientale, con un ruolo preminente delle economie del “patto di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), mostrano delle fragilità che si risolvono, però, in una condizione di dipendenza economica e finanziaria dal “centro”.
Un’altra questione che ha messo a dura prova questa fragile organizzazione internazionale è stata la gestione del fenomeno migratorio. Essa ha sollevato solo contrasti tra chi preferisce erigere muri e delimitare confini con del filo spinato e chi, invece, opta per una condivisione sull’intero territorio europeo delle richieste d’asilo.
L’emergenza sanitaria che si sta vivendo è l’ennesima prova della debolezza del “noi” europeo, in quanto non sono stati presi dei provvedimenti comuni sin dall’inizio e, poi, non si è instaurata quella “social catena” (tanto auspicata da Giacomo Leopardi) tra i leader politici in modo da sostenere le zone in maggior difficoltà con l’approvvigionamento di strumenti utili a superare l’emergenza come mascherine e respiratori.
Si vedono emergere le contraddizioni più profonde del nostro tempo: da un lato la globalizzazione e il flusso continuo di persone, prodotti, idee; dall’altra, la tendenza all’isolamento, la paura dell’altro, la mancanza di fiducia e la rottura delle reti sociali. Gli effetti saranno drammatici e duraturi, soprattutto per chi vive ai margini, con il rischio di vedere ulteriormente ampliarsi le disuguaglianze economiche, sociali e culturali che attanagliano i Paesi della “periferia” come l’Italia.
Questa possibilità, tuttavia, non sembra condurre i governi dell’Unione verso una ragionevole e operativa coesione; infatti, si assiste a una comunità internazionale, se non smarrita, che si muove a due velocità diverse.
Purtroppo, secondo alcuni studiosi, questa problematica già è stata riscontrata durante il periodo (che non è ancora terminato) della crisi finanziaria del 2008.
L’Europa, in quel momento, si è mostrata il luogo dove le crisi globali mutano (un po’ come fanno i virus) divenendo regionali e trasformandosi in minacce esistenziali per l’intero progetto di integrazione europea.
Nel contesto istituzionale dell’eurozona, la crisi finanziaria si è presto trasformata in una crisi dei debiti sovrani, che ha trascinato con sé le banche.
La soluzione prospettata è stata l’austerità e il taglio, soprattutto, agli investimenti pubblici ed alle spese sociali.
Nei seguenti grafici, realizzati dall’Eurostat, mostrano l’evoluzione nel periodo 2008-2018 della spesa pubblica in istruzione e sanità (distinta in spese generali e specificamente legate ad attività ospedaliere), in Germania e nella “periferia” meridionale, illustrando in modo netto il processo di divaricazione tra i Paesi della “periferia” e quelli del “centro”.
Evoluzione spesa pubblica in istruzione
Evoluzione spesa pubblica in sanità
Evoluzione spesa pubblica in sanità
(ospedali)
Si manifestano, inoltre, le ripercussioni del processo di indebolimento della capacità produttiva nella “periferia” meridionale e di un decentramento internazionale della produzione che, inseguendo la logica del minor costo, ha reso estremamente vulnerabile la produzione basata su lunghissime catene globali del valore.
L’emergenza rende chiaro cosa significa perdere la capacità di produrre, sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi, ciò di cui si ha bisogno in tempi rapidi (dispositivi di protezione individuale, respiratori, medicinali).
Oltre a mietere vittime e a mettere sotto un’incredibile pressione i sistemi sanitari della “periferia” e dell’Europa intera, il Coronavirus comporta nell’immediato un enorme crollo della produzione e dei redditi e una gigantesca pressione sulle finanze pubbliche di tutti gli Stati.
L’ossessione per la competitività e la promozione di un modello di crescita guidato in via prevalente dalle esportazioni hanno rappresentato una costante del processo di integrazione europeo degli ultimi decenni. Nella retorica che ha accompagnato il processo di “europeizzazione”, l’enfasi sui settori “tradable” (un bene o un servizio che può essere venduto in un luogo distante da quello in cui viene prodotto) e la minore importanza attribuita ai settori “non-tradable” (casa, sanità, istruzione, servizi…) hanno alla lunga favorito un contesto in cui il divario tra Paesi centrali e Paesi periferici si è allargato e le dinamiche di polarizzazione ed impoverimento all’interno degli stessi Paesi si sono radicalizzate.
Se la crisi del 2008 aveva già messo in luce l’insostenibilità di questo modello e la necessità di un cambiamento di rotta, la crisi determinata dall’emergenza Coronavirus pone i Paesi europei di fronte a scelte ancor più radicali.
La risposta dei singoli Paesi alla crisi sanitaria e produttiva potrebbe mettere in crisi il modello di organizzazione globale della produzione come si è sviluppato finora e minacciare la sopravvivenza stessa del modello europeo. Allora gli esperti del settore cercano di rispondere ad un importante quesito: quali scenari si potrebbero prospettare per “centro” e “periferie” europee dopo l’emergenza sanitaria provocata da Covid-19?
Di fronte alla crescente diffusione del virus, le reazioni protezionistiche e/o improntate a politiche del tipo “beggar thy neighbours” (“politica del rubamazzo”- produce benefici unicamente al Paese che li adotta e che provocano danni agli altri) da parte di alcuni governi – il divieto di esportare materiale sanitario o la continuazione della produzione in alcuni settori per sottrarre quote di mercato a Paesi che hanno deciso di interrompere l’attività in quegli stessi settori – sono sintomatiche delle difficoltà di intraprendere un’azione coordinata a livello internazionale per contrastare i limiti della frammentazione produttiva sul piano globale.
Nei confronti dell’emergenza sanitaria, i Paesi europei si sono mossi in ordine sparso, in particolare l’Italia che, essendo stata la prima flagellata dal Coronavirus, ha intrapreso rigide misure di isolamento della popolazione; la Spagna ha adottato dei provvedimenti in ritardo rispetto alla gravità della sua situazione; la Germania, invece, conta sul suo sistema sanitario per effettuare test a tappeto e, eventualmente, procedere con la geo-localizzazione della popolazione contagiata o a rischio di contagio.
Eppure, di fronte a uno shock simmetrico di questa portata – sanitario ed economico, dal lato della domanda e dell’offerta – ci si sarebbe aspettati un maggior coordinamento tra i Paesi dell’Ue. Di fronte alla richiesta di emissione di Eurobond da parte dei Paesi della “periferia” meridionale per finanziare misure straordinarie di sostegno alle famiglie e alle imprese, i Paesi del Nord Europa (Austria, Germania, Olanda, Finlandia) hanno opposto un rifiuto, confermando nuovamente l’impossibilità della mutualizzazione dei debiti (e dei rischi) all’interno di un’unione monetaria “difettosa”, in cui sovranità monetaria e poteri fiscali dello Stato sono rigidamente separati.
In questa situazione, i Paesi europei (in particolare, quelli aderenti all’UME) si trovano di fronte a un bivio: o sciogliere l’Unione o riformarla radicalmente. Quest’ultima opzione richiede delle trasformazioni concernenti la governance fiscale e monetaria dell’Unione che interessano quattro elementi cruciali: espansione del mercato interno tedesco ed europeo, bilanciamento della capacità produttiva all’interno dell’Unione, parziale riconversione industriale verso settori finalizzati al soddisfacimento di bisogni sociali (quali istruzione, sanità e cura) e accorciamento delle catene del valore. Il possibile passaggio da una piattaforma industriale pensata per l’esportazione a una per il mercato interno (una sorta di passaggio da un’economia di guerra a un’economia di pace) viene interpretato dagli esperti come un’utopia. Sarebbe però interessante riscoprire e sperimentare, nel caso dell’Europa, quella globalizzazione guidata dallo Stato, pensata dall’economista svedese Gunnar Myrdal, in cui vengono valorizzate le complementarità produttive tra Paesi senza danneggiare le conquiste dello stato sociale.
Con grandi difficoltà si accettò il fatto che la Terra non fosse il centro dell’universo; vi è la necessità ora di porre al centro non più l’interesse di chi esercita il potere: l’interesse generale deve divenire il centro intorno a cui ruotano i “pianeti” che ubbidiscono alle leggi naturali, al bene comune che garantisce la continuità e il movimento in un reale progresso.
La sanità, la scuola, il lavoro, la casa, la cultura, il tempo libero, i diritti, la ricerca, l’accoglienza… non devono essere mai più i satelliti intorno al sole del potere politico, economico, religioso, culturale… ma il fulcro intorno a cui ruota l’esistenza, il presente e il futuro.
Non è più possibile, inoltre, limitarsi a guardare solo la “propria terra”, perché ci sono intrecci indivisibili dai quali dipende il futuro del mondo; non è possibile isolarsi attraverso la chiusura delle frontiere e rifiutare tutto ciò che ne è fuori perché se è prioritario come interesse generale “l’Italia, per gli italiani, la Francia per i francesi, gli americani per gli USA” … non si va da nessuna parte!
Che tipo d’interesse generale è servirsi del Covid-19 come occasione per lavarsi le mani di fronte a emergenze divenute “tragiche normalità”?
Quante mascherine, guanti, tute protettive, tamponi, strumenti di terapia intensiva, ricercatori e scienziati, personale sanitario… potevano esserci per salvare un numero enorme di persone con i soldi “gettati” in strumenti di morte (droni, esercito, aerei militari) che non “saziano” la vita?
Non vale sempre, allora, “prima gli italiani” perché agli italiani ammalati e morti, servivano ora ben altre scelte politiche ed economiche!
La politica deve essere capace di coagulare la società, di far emergere quanto è comune a tutti, ben al di là del comune pericolo per la vita e la salute, in un processo di continua crescita verso il “generale”.
Crisi economiche, migrazioni, terrorismo, problemi del lavoro, povertà, disuguaglianza estrema, sfruttamento dissennato dell’ambiente, distruzione dell’habitat naturale e degli ecosistemi… hanno creato profonde cicatrici, rotture nel tessuto del sistema affermatosi negli anni e a tutto ciò non sono possibili risposte parziali, “nazionali”, perché hanno origine e presentano dinamiche globali.
Essere cittadino è molto più di un documento d’identità o l’appartenenza ad una collettività: ogni essere umano fa parte di gruppi, dalla famiglia a realtà sempre più complesse.
Oggi, però, le nostre società appaiono fragili, con legami interpersonali meno stretti, con una condivisione più debole. L’emergenza sanitaria che si sta affrontando può aiutare a re-imparare a vivere in convivenza costruttiva, a dare un nuovo volto al concetto di democrazia, nella consapevolezza di non essere solo soggetti di diritti ma anche di doveri.
La democrazia si crea con la coesione sociale, al fine di realizzare progetti e aspirazioni d’interesse comune, e la partecipazione cosciente e responsabile di ognuno e di tutti.
Sovranismi, nazionalismi, populismi, tentazioni e tentativi totalitari, inquietanti misure speciali non possono dare risposte e soluzioni durature, quelle, al di là del Covid-19, che dovranno decidere il futuro della Terra e dell’umanità e porre le basi di una globalizzazione diversa e positiva per tutti.
Essenziale sarà il coinvolgimento di cittadini coscienti perché solo un forte senso civico sarà determinante sia in campo sanitario che di organizzazione sociale, in una più profonda e reale democrazia.
L’Unione Europea come organismo istituzionale, purtroppo, ha confermato la sua natura prettamente amministrativa e finanziaria, mentre i leader europei, ancora una volta, non sono riusciti a mandare un messaggio politico europeista, che alimentasse la percezione di una grande comunità di popoli europea.
I cittadini dei diversi Stati – si pensi soprattutto all’Italia – usciranno da questa emergenza consapevoli delle proprie forze, piangeranno i propri morti, e, in particolare, l’identità nazionale si rafforzerà.
L’identità europea, dunque, ne uscirà ulteriormente indebolita, e il sogno di una vera comunità di popoli sarà sempre più lontano.
Questo allarme è stato percepito anche dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale è intervenuta nel giorno in cui i leader Ue si sono confrontati per trovare un’intesa su un fondo comune per affrontare la crisi.
Durante il suo discorso, ella ha condannato l’egoismo dimostrato da alcuni Stati membri all’inizio dell’emergenza del Covid-19, affermando che: “La storia delle ultime settimane è difficile da raccontare, troppi in Europa inizialmente hanno cercato di guardare solo ai propri interessi, quando l'Europa aveva bisogno di uno spirito di unità, “ uno per tutti, tutti per uno”, troppi hanno dato una risposta solo per se stessi, e quando l'Europa doveva dimostrare che non si tratta solo di una Unione di facciata, troppi hanno rifiutato di aprire il proprio ombrello per proteggere gli altri, e le conseguenze di questa azione non coordinata hanno colpito tanti”.
Le divisioni sono note: i Paesi del Sud (Italia, Spagna e Francia) chiedono un fondo di garanzia comune (il cosiddetto Mes) per emettere degli eurobond (o “coronabond”) e avere, così, risorse per affrontare l’emergenza senza strozzare la ripresa; i Paesi del Nord, invece, hanno risposto finora “picche”.
Dinanzi a un’aula del Parlamento europeo vuota (oltre 600 deputati hanno votato per la prima volta nella storia da casa), la presidente ha ammonito: “Nell’Unione Europea siamo a un punto di svolta: o lasciamo che il virus ci divida tra ricchi e poveri, oppure agiamo insieme come un Continente più forte. Forse possiamo emergere da questa crisi più forti e migliori. Una volta passata la pandemia di Covid-19, gli europei si ricorderanno di chi c'è stato per loro e di chi non c'è stato. Si ricorderanno di chi ha agito e di quelli che non lo hanno fatto. Si ricorderanno delle decisioni che prenderemo oggi. E di quelle che non prenderemo”.
E dopo aver salutato gli “eroi”, ossia il personale medico e sanitario impegnato in prima linea, e aver ricordato che “nessuno Stato membro può gestire questa crisi da solo, è solo aiutandoci gli uni con gli altri che possiamo aiutare noi stessi”, von der Leyen ha citato Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori della Comunità Economica Europea, insieme ai francesi Jean Monnet e Robert Schuman, ad Alcide De Gasperi : “Adenauer ha detto: “La Storia è anche la somma delle cose che si sarebbero potute evitare”. Amici miei, la Storia ci guarda. Facciamo la cosa giusta insieme: con un grande cuore, non con 27 piccoli cuori. Long live Europe! Vive l'Europe!”.
Questa problematica non ha interessato solo gli esperti del settore economico e politico ma anche il Papa che, in virtù di guida spirituale, l’ha portata all’attenzione di tutti i fedeli provenienti da ogni parte del mondo prima della benedizione Urbi et Orbi, affermando che: “Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone.[…] Tra le tante aree del mondo colpite dal Coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all'Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo amato continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un'unica famiglia e si sostengano a vicenda. […] Oggi l'Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero”.
Attraverso questo discorso, Papa Francesco torna ad assegnare al Continente un ruolo centrale che aveva perso con la Guerra Fredda: Europa esempio del mondo, reggitrice dei suoi stessi popoli e modello per gli altri; una centralità che lo scorso gennaio era stata sottolineata dal segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Gallagher, in una visita al Consiglio d'Europa.
A maggior ragione, insiste oggi il Papa, “non si perda l'occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. Se si pone come alternativa l'egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, si metterà a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.
Non è il momento delle divisioni, degli egoismi, insiste Bergoglio: “Indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte”.
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