“Nel
mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era
smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la
paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.”
Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e spiega le ragioni del viaggio allegorico.
Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che, in questa vita, è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e guadagnare la beatitudine.
La notte del 24 marzo (o 7 aprile) dell’anno 1300, Dante si smarrisce in una selva oscura, selvaggia, impenetrabile e intricata, impossibile da descrivere poiché, ripensando ad essa, rinnova in lui un immenso terrore.
È impossibile per lui descrivere la circostanza che aveva determinato il suo ingresso in essa e di essersi allontanato dalla retta via, in quanto era in uno stato di torpore.
Essa, infatti, è tormentosa quasi quanto la morte, però, pur di parlare del bene che vi trovò, decide di spostare la sua attenzione sulle altre cose che circondano la selva.
La selva, quindi, secondo alcuni studiosi di Dante, assume e un significato allegorico e un significato letterale: allegoricamente essa rappresenta proprio il peccato, mentre letteralmente è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via.
Dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso come fa un naufrago che, con il respiro ancora ansimante, giunge sulla riva dopo essersi salvato dalle acque minacciose del mare, egli giunge ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole.
Il colle, secondo alcuni critici, presenta un significato e allegorico e metaforico: esso rappresenta, a livello allegorico, la beatitudine, cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia), che in questa vita, l’umanità può raggiungere affidandosi alle proprie facoltà e, a livello metaforico, assume un significato sovrannaturale, ossia l’ascesa verso il Paradiso.
Egli, tuttavia, continua ad essere angosciato perché sa di non essere ancora del tutto salvo senza l'intervento di qualcuno che lo riporterà lentamente e consapevolmente per la retta via.
Oltre ad essere primavera, il colle infonde nell’animo del poeta speranza e, con entusiasmo, riprende la strada verso il declivio deserto.
Dante, vessato dalla stanchezza e dalla paura di non aver scampato del tutto il pericolo, arranca verso la collina piantando con fermezza il piede in basso e dandosi, così, la spinta per far avanzare quello in alto.
Alcuni critici sostengono che questi versi, oltre ad avere un senso letterale, hanno un senso figurato: Dante richiama la difficoltà di avanzare verso un fine (Dio) in quanto in lui è presente ancora il peccato.
Inoltre, si pensa che il poeta mette in avanti, con grande difficoltà, il piede destro, che rappresenta l’intelletto, appoggiandosi a quello sinistro, che rappresenta la volontà.
Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e snella, che lo spinge più volte a tornare indietro.
Intanto era l'alba e il sole stava sorgendo nel cielo. Il poeta, così, si rasserena poiché tutto si illumina intorno.
Il timore che lo angoscia, però, aumenta con l’arrivo di un leone affamato che sembrava scuotere l'aria intorno.
Successivamente, sopraggiunge una lupa, molto magra per i segni delle sue numerose cupidigie (desideri d'avere) con le quali aveva afflitto tante persone.
Questo animale spaventa così tanto il poeta che perde ogni speranza di salire il colle e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.
Il poeta, così, attraverso una similitudine (versi 55-60) si paragona al giocatore di azzardo che è felicissimo di aver vinto al gioco, ma gli basta un momento per perdere tutto e, allora, tutti i suoi pensieri diventano tristi e lamentosi.
Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono considerate le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza simboleggia la lussuria, il leone rappresenta la superbia, la lupa rappresenta allegoricamente l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta.
Vari interpreti affermano che queste tre figure richiamano un passo in Geremia che descrive tre animali selvatici (leone, lupo e leopardo) che caleranno sugli abitanti di Gerusalemme come castigo delle loro colpe; infatti, secondo alcune recenti interpretazioni, si pensa che al di sotto della città santa si spalanca la voragine infernale e, in particolare, presso il Monte Sion vi è la famosa selva oscura.
La lupa-avarizia è considerata la radice di tutti i mali e, per Dante, causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva; inoltre, va ricordato che in molti passi del poema il poeta fiorentino si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata proprio dall'avidità di denaro.
Non a caso, secondo delle recenti interpretazioni, la lonza rappresenta la città di Firenze, il leone simboleggia la Francia regnata dal superbo re Carlo di Valois e la lupa raffigura la città di Roma e, in particolare, la Chiesa capitanata dall’avaro Bonifacio VIII.
La lupa si
rivela, pertanto, un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola
nuovamente verso la selva, cioè il peccato.
La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno.
Allegoricamente il poeta latino rappresenta la ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali.
Egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia “ombra od omo certo”.
La risposta di Virgilio è un’ elegante auto-presentazione in cui il personaggio non fa direttamente il proprio nome.
Egli avverte il poeta fiorentino che ormai non era più un uomo in carne ed ossa ed è vissuto a Roma con Giulio Cesare e con i fasti di Augusto, ovvero durante il paganesimo.
Egli in vita è stato poeta ed ha scritto l’Eneide, poema considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa.
Virgilio rimprovera Dante perché sta scivolando verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio e la ragione di felicità.
Dante risponde a sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai vissuto e dichiarando che è il suo maestro e modello di stile poetico.
Rincuorato, si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, pregando Virgilio di aiutarlo a superarla.
A questo punto, vedendolo in lacrime, Virgilio gli consiglia di prendere un'altra strada giacché essa
è un animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare la propria fame, che uccide chiunque incontri.
Virgilio profetizza poi la venuta di un “veltro”, (secondo Boccaccio un cane da caccia che è nemico dei lupi) che allontanerà la lupa da ogni luogo finché la farà sprofondare nell'Inferno da dove l'invidia di Satana l'aveva fatta partire per sconvolgere il mondo.
La profezia del Veltro, secondo alcuni critici, può essere considerata come la speranza di Dante, in base alla quale, un giorno, si affermerà una figura forte che, in modo energico, contrasterà la sete dei beni materiali dilagante nella società.
Come ha indicato precedentemente il critico Guido Mazzoni, si tratta di una profezia di matrice squisitamente ghibellina e non riguarda né la venuta di un buon papa né una riforma degli ordini mendicanti, o cose simili, ma la venuta di una importante figura politica (per esempio un imperatore).
Colui che verrà, inoltre, non desidererà né potere né ricchezza, ma desidererà accrescere sapienza, amore, virtù e nascerà tra il doppio strato morbido del feltro; sarà la salvezza dell'Italia per la quale morirono Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.
A questo punto, Virgilio consiglia Dante di seguirlo in questi luoghi dove sentirà le urla disperate di spiriti tormentati e vedrà anche coloro che pur lambiti dal fuoco eterno sono contenti perché sperano di raggiungere il luogo dei beati.
Se deciderà di raggiungere la vetta massima della conoscenza possibile, lo affiderà ad un'anima degna di sostenerlo nel perseguimento di raggiungere il luogo tanto agognato che, purtroppo, non è possibile entrare per lui.
Dante, infatti, per visitare il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha conosciuto.
Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, le uniche che possono portare l'uomo alla salvezza ed alla beatitudine eterna, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado solo di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e ad una condotta onesta.
La scelta di Virgilio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone l’Uticense, ma il poeta latino nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi e, inoltre, si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purgatorio, canto XXII, in cui il poeta latino Stazio dichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi).
Egli era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo.
Pertanto, l'autore dell'Eneide era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni.
Virgilio afferma che tutti questi luoghi così particolari sono gestiti da Colui che qui esercita il suo potere e rende felice chi riesce a raggiungerlo.
A questo punto Dante, convinto delle parole di Virgilio lo supplica in nome di Dio di condurlo laddove è possibile vedere la porta di San Pietro, tra le anime di coloro che soffrono con immenso dolore.
Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, ance se verrà assalito da dubbi e timori (all'inizio del Canto II) che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice.
Figure retoriche
Le figure retoriche presenti nel canto sono:
Nei versi 1-3
- Allegoria= la selva è simbolo di decadenza e di disordini causati dalla Chiesa e dalla debolezza dell'imperatore e dalla commistione del potere temporale e spirituale;
- Metafora= la selva oscura viene paragonata all'anima di Dante ( e degli uomini) immersa nel peccato, nell'impossibilità di redimersi senza l'aiuto di una guida illuminata dalla ragione (Virgilio);
- Allitterazione = ripetizione lettera “m”.
Nei versi 4-6
- Polisindeto: ripetizione congiunzione “e”;
- Figura etimologica: selva, selvaggia, aspra e forte;
- Allitterazione: ripetizione della lettera “s”.
Nei versi 10-12
- Metafora= torpore spirituale, cecità che impedisce l’intervento della ragione;
- Dai primi versi si passa da una condizione comune a una individuale;
- Antitesi (dal verso 10 al verso 18) tra la vita di un’anima nel peccato e la vita di un’anima illuminata dalla grazia divina (selva - colle).
Nel verso 13
- Allegoria: il colle viene inteso come virtù, beatitudine che l'umanità può raggiungere con le proprie facoltà.
Nel verso 15 è presente un’anastrofe (“che m’avea di paura il cor compunto”).
Nei versi 16-18 vi è una perifrasi del colle illuminato dal Sole (simbolo della presenza divina) che allontana la paura e l'angoscia di Dante tipica della selva oscura.
Nei versi 22-27 vi è una similitudine classica, grammaticalmente corretta che fa riferimento al Libro I dell'Eneide, per mezzo della quale, Dante si presenta come il protagonista di un nuovo poema epico.
Nel verso 30 c'è un allegoria: Dante ha difficoltà a raggiungere la cima del colle (Dio) solamente affidandosi alle proprie capacità.
Nel verso 31 vi è uno stilema, ossia un elemento linguistico che distingue la scrittura di un autore da un altro (Ed ecco, …”).
Nel verso 32 è presente un’allegoria: la lonza rappresenta il vizio dell'animo umano, un peccato che porta alla perdizione, la lussuria. Un passo in Geremia descrive tre animali selvatici quali lonza, leone, lupa, che caleranno sugli abitanti di Gerusalemme per i peccati commessi, rispettivamente incontinenza, superbia, avarizia.
Nel verso 33 è presente un’ anastrofe (“che di pel macolato era coverta.”).
Nel verso 36 è presente una paronomasia (accostamento di due termini che hanno lo stesso suono ma significato diverso (“volte vòlto”).
Nel verso 45vi è un’ allegoria: il leone rappresenta la superbia.
Nei versi 49-50 vi sono un enjambement ed un’allegoria (la lupa rappresenta l’avarizia).
Nel verso 53 è presente una metonimia (“con la paura ch’uscia di sua vista”).
Nel verso 55 è presente una similitudine : Dante si sente come un giocatore d'azzardo davanti alla lupa.
Nel verso 60 vi è un’ ipallage/sinestesia, ossia due termini vicini che appartengono a due sfere sensoriali diverse (“mi ripigneva là dove ‘l sol tace”).
Nei versi 62-63 vi sono un’ anastrofe ed un enjambement.
Nel verso 65 vi è un latinismo (“Miserere abbi pietà di me!”).
Nel verso 67 vi è una duplicazione (“Non omo, omo già fui”).
Nei versi 70-75 vi è una perifrasi che si riferisce alla vita ed alla fama di Virgilio
Nei versi 70-78 Virgilio rappresenta allegoricamente i principi morali e la rettitudine che devono guidare l'uomo durante la sua vita.
Nel verso 80 vi è una metafora: Dante paragona Virgilio a una sorgente dalla quale sgorga ed espande il lago di eloquenza
Nel verso 101 vi è un’ allegoria: il Veltro , secondo Boccaccio, appartiene a una specie di cani nemici dei lupi. Dante auspica l'intervento di una figura che contrasti in modo energico la sete dei beni materiali.
Nel verso 109 vi è una metonimia (“questi la caccerà per ogne villa” viene usata villa al posto di Terra).
Nel verso 117 vi è una riferita all’Inferno e alla dannazione delle anime che non si sono, in vita, pentite dei peccati commessi
Nel verso 118 vi è un’antitesi (anime infernali -anime beate).
Nei versi 113-126 vi è una perifrasi sul viaggio che Dante intraprenderà e sulle guide che lo assisteranno (Virgilio e Beatrice).
Nel verso 127 vi è un latinismo (“quivi”).
Nel verso 132 vi è un’ endiadi.
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