Passa ai contenuti principali

Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Canto I - Inferno

“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.                                        

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!                                   

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.”

 

Il canto I dell’Inferno è di introduzione all’intero poema, presenta quindi la situazione iniziale e spiega le ragioni del viaggio allegorico.

Dante vi compare nella duplice veste di personaggio reale, che in un determinato momento storico si smarrisce in una selva (a metà della sua vita, quindi nell'anno 1300 quando stava per compiere 35 anni), e in quella di ogni uomo che, in questa vita, è chiamato a compiere un percorso di redenzione e purificazione morale per liberarsi dal peccato e guadagnare la beatitudine.

La notte del 24 marzo (o 7 aprile) dell’anno 1300, Dante si smarrisce in una selva oscura, selvaggia, impenetrabile e intricata, impossibile da descrivere poiché, ripensando ad essa, rinnova in lui un immenso terrore.

È impossibile per lui descrivere la circostanza che aveva determinato il suo ingresso in essa e di essersi allontanato dalla retta via, in quanto era in uno stato di torpore.

Essa, infatti, è tormentosa quasi quanto la morte, però, pur di parlare del bene che vi trovò, decide di spostare la sua attenzione sulle altre cose che circondano la selva.

La selva, quindi, secondo alcuni studiosi di Dante, assume e un significato allegorico e un significato letterale: allegoricamente essa rappresenta proprio il peccato, mentre letteralmente è un luogo in cui chi compie un viaggio rischia realisticamente di smarrirsi per essere uscito dalla diritta via.

Dopo essersi riposato per qualche istante e aver ripensato al pericolo appena corso come fa un naufrago che, con il respiro ancora ansimante, giunge sulla riva dopo essersi salvato dalle acque minacciose del mare, egli giunge ai piedi di un colle, dalla cui vetta vede spuntare i primi raggi del sole.

Il colle, secondo alcuni critici, presenta un significato e allegorico e metaforico: esso rappresenta, a livello allegorico, la beatitudine,  cioè al possesso delle virtù cardinali (fortezza, temperanza, prudenza e giustizia), che in questa vita, l’umanità può raggiungere affidandosi alle proprie facoltà e, a livello metaforico, assume un significato sovrannaturale, ossia l’ascesa verso il Paradiso.

Egli, tuttavia, continua ad essere angosciato perché sa di non essere ancora del tutto salvo senza l'intervento di qualcuno che lo riporterà lentamente e consapevolmente per la retta via.

Oltre ad essere primavera, il colle infonde nell’animo del poeta speranza e, con entusiasmo, riprende la strada verso il declivio deserto.

Dante, vessato dalla stanchezza e dalla paura di non aver scampato del tutto il pericolo, arranca verso la collina piantando con fermezza il piede in basso e dandosi, così, la spinta per far avanzare quello in alto.

Alcuni critici sostengono che questi versi, oltre ad avere un senso letterale, hanno un senso figurato: Dante richiama la difficoltà di avanzare verso un fine (Dio) in quanto in lui è presente ancora il peccato.

Inoltre, si pensa che il poeta mette in avanti, con grande difficoltà, il piede destro, che rappresenta l’intelletto, appoggiandosi a quello sinistro, che rappresenta la volontà.

Mentre sta salendo il colle, gli appare improvvisamente una lonza dal pelo maculato, assai agile e snella, che lo spinge più volte a tornare indietro.

Intanto era l'alba e il sole stava sorgendo nel cielo. Il poeta, così, si rasserena poiché tutto si illumina intorno.

Il timore che lo angoscia, però, aumenta con l’arrivo di un leone affamato che sembrava scuotere l'aria intorno.

Successivamente, sopraggiunge una lupa, molto magra per i segni delle sue numerose cupidigie (desideri d'avere) con le quali aveva afflitto tante persone.

Questo animale spaventa così tanto il poeta che perde ogni speranza di salire il colle e lentamente scende verso il basso, nella zona non illuminata dal sole.

Il poeta, così, attraverso una similitudine (versi 55-60) si paragona al giocatore di azzardo che è felicissimo di aver vinto al gioco, ma gli basta un momento per perdere tutto e, allora, tutti i suoi pensieri diventano tristi e lamentosi.

Le tre fiere che sbarrano il passo al poeta e lo ricacciano verso la selva sono considerate le tre principali disposizioni peccaminose: la lonza simboleggia la lussuria, il leone rappresenta la superbia, la lupa rappresenta allegoricamente l’avarizia-cupidigia, secondo una tradizione già attestata dai commentatori medievali, e anch'esse ovviamente rappresentano tre animali selvaggi che non erano certo impossibili da incontrare in un effettivo viaggio attraverso una foresta.

Vari interpreti affermano che queste tre figure richiamano un passo in Geremia che descrive tre animali selvatici (leone, lupo e leopardo) che caleranno sugli abitanti di Gerusalemme come castigo delle loro colpe; infatti, secondo alcune recenti interpretazioni, si pensa che al di sotto della città santa si spalanca la voragine infernale e, in particolare, presso il Monte Sion vi è la famosa selva oscura.

La lupa-avarizia è considerata la radice di tutti i mali e, per Dante, causa prima del disordine politico e morale che regnava in Italia all’inizio del Trecento, di cui è simbolo del resto anche la selva; inoltre, va ricordato che in molti passi del poema il poeta fiorentino si scaglia con forza contro la corruzione del mondo politico ed ecclesiastico del suo tempo, causata proprio dall'avidità di denaro.

Non a caso, secondo delle recenti interpretazioni, la lonza rappresenta la città di Firenze, il leone simboleggia la Francia regnata dal superbo re Carlo di Valois e la lupa raffigura la città di Roma e, in particolare, la Chiesa capitanata dall’avaro Bonifacio VIII.

La lupa si rivela, pertanto, un ostacolo insuperabile e Dante lentamente scivola nuovamente verso la selva, cioè il peccato.

La seconda parte del Canto vede come protagonista Virgilio, che sarà la prima guida di Dante nel viaggio ultraterreno.

Allegoricamente il poeta latino rappresenta la ragione umana dei filosofi antichi, guida sufficiente a condurre l’uomo al pieno possesso delle virtù cardinali.

Egli giunge in soccorso del poeta in modo inaspettato, come un'apparizione spettrale, tanto che Dante gli chiede timoroso se sia “ombra od omo certo”.

La risposta di Virgilio è un’ elegante auto-presentazione in cui il personaggio non fa direttamente il proprio nome.

Egli avverte il poeta fiorentino che ormai non era più un uomo in carne ed ossa ed è vissuto a Roma con Giulio Cesare e con i fasti di Augusto, ovvero durante il paganesimo.

Egli in vita è stato poeta ed ha scritto l’Eneide, poema considerato il capolavoro della letteratura latina e il cui protagonista, Enea, è centrale nella tradizione classico-cristiana, in quanto fondatore della stirpe romana e, indirettamente, di quella Roma che sarà centro dell'Impero e della Chiesa.

Virgilio rimprovera Dante perché sta scivolando verso il male della selva, mentre dovrebbe scalare il colle che è principio e la ragione di felicità.

Dante risponde a sua volta con ammirazione, dicendo a Virgilio che lui è il più grande poeta mai vissuto e dichiarando che è il suo maestro e modello di stile poetico.

Rincuorato, si giustifica indicando la lupa come la bestia selvaggia che gli sbarra la strada, pregando Virgilio di aiutarlo a superarla.

A questo punto, vedendolo in lacrime, Virgilio gli consiglia di prendere un'altra strada giacché essa

è un animale particolarmente pericoloso e malefico, incapace di soddisfare la propria fame, che uccide chiunque incontri.

Virgilio profetizza poi la venuta di un “veltro”, (secondo Boccaccio un cane da caccia che è nemico dei lupi) che allontanerà la lupa da ogni luogo finché la farà sprofondare nell'Inferno da dove l'invidia di Satana l'aveva fatta partire per sconvolgere il mondo.

La profezia del Veltro, secondo alcuni critici, può essere considerata come la speranza di Dante, in base alla quale, un giorno, si affermerà una figura forte che, in modo energico, contrasterà la sete dei beni materiali dilagante nella società.

Come ha indicato precedentemente il critico Guido Mazzoni, si tratta di una profezia di matrice squisitamente ghibellina e non riguarda né la venuta di un buon papa né una riforma degli ordini mendicanti, o cose simili, ma la venuta di una importante figura politica (per esempio un imperatore).

Colui che verrà, inoltre, non desidererà né potere né ricchezza, ma desidererà accrescere sapienza, amore, virtù e nascerà tra il doppio strato morbido del feltro; sarà la salvezza dell'Italia per la quale morirono Eurialo e Niso, la regina dei Volsci Camilla, il re dei Rutuli Turno, tutti cantati dallo stesso Virgilio nell’Eneide.

A questo punto, Virgilio consiglia Dante di seguirlo in questi luoghi dove sentirà le urla disperate di spiriti tormentati e vedrà anche coloro che pur lambiti dal fuoco eterno sono contenti perché sperano di raggiungere il luogo dei beati.

Se deciderà di raggiungere la vetta massima della conoscenza possibile, lo affiderà ad un'anima degna di sostenerlo nel perseguimento di raggiungere il luogo tanto agognato che, purtroppo, non è possibile entrare per lui.

Dante, infatti, per visitare il Paradiso dovrà attendere la guida di Beatrice, in quanto Virgilio è pagano e non è quindi ammesso nel regno di quel Dio che non ha conosciuto.

Allegoricamente Beatrice raffigura la grazia santificante e la teologia rivelata, le uniche che possono portare l'uomo alla salvezza ed alla beatitudine eterna, mentre è affermata fin dall'inizio l'insufficienza della ragione naturale, che è in grado solo di condurre l'uomo al possesso delle virtù cardinali e ad una condotta onesta.

La scelta di Virgilio come guida nella prima parte del viaggio è stata molto discussa, in quanto Dante avrebbe potuto scegliere un filosofo come Aristotele o un personaggio storico come Catone l’Uticense, ma il poeta latino nel Medioevo era ritenuto un pensatore al pari degli altri grandi filosofi antichi e, inoltre, si riteneva che avesse intravisto alcune verità del Cristianesimo e le avesse preannunciate nelle sue opere (specie nella famosa Egloga IV: cfr. Purgatorio, canto XXII, in cui il poeta latino Stazio dichiara di essere diventato cristiano grazie alla lettura di quei versi).

Egli era anche il principale scrittore dell'età di Augusto, sotto il cui Impero il mondo aveva conosciuto pace e giustizia, indispensabili secondo il pensiero medievale affinché potesse diffondersi il Cristianesimo.

Pertanto, l'autore dell'Eneide era in realtà una scelta quasi obbligata come maestro e guida di Dante nel viaggio attraverso i primi due regni ultraterreni.

Virgilio afferma che tutti questi luoghi così particolari sono gestiti da Colui che qui esercita il suo potere e rende felice chi riesce a raggiungerlo.

A questo punto Dante, convinto delle parole di Virgilio lo supplica in nome di Dio di condurlo laddove è possibile vedere la porta di San Pietro, tra le anime di coloro che soffrono con immenso dolore.

Il Canto si chiude con Dante che, pieno di speranza e di buoni propositi, si accinge a seguire la sua guida per giungere nei luoghi che gli ha preannunciato, ance se verrà assalito da dubbi e timori  (all'inizio del Canto II) che Virgilio fugherà raccontando del suo incontro con Beatrice.

Figure retoriche

Le figure retoriche presenti nel canto sono:

Nei versi 1-3

  • Allegoria= la selva è simbolo di decadenza e di disordini causati dalla Chiesa e dalla debolezza dell'imperatore e dalla commistione del potere temporale e spirituale;
  • Metafora= la selva oscura viene paragonata all'anima di Dante ( e degli uomini) immersa nel peccato, nell'impossibilità di redimersi senza l'aiuto di una guida illuminata dalla ragione (Virgilio);
  • Allitterazione = ripetizione lettera “m”.

Nei versi 4-6

  • Polisindeto: ripetizione congiunzione “e”;
  • Figura etimologica: selva, selvaggia, aspra e forte;
  • Allitterazione: ripetizione della lettera “s”.

Nei versi 10-12

  • Metafora= torpore spirituale, cecità che impedisce l’intervento della ragione;
  • Dai primi versi si passa da una condizione comune a una individuale;
  • Antitesi (dal verso 10 al verso 18) tra la vita di un’anima nel peccato e la vita di un’anima illuminata dalla grazia divina (selva - colle).

Nel verso 13

  •      Allegoria: il colle viene inteso come virtù, beatitudine che l'umanità può  raggiungere con le proprie facoltà.

Nel verso 15 è presente un’anastrofe (“che m’avea di paura il cor compunto”).

Nei versi 16-18 vi è una perifrasi del colle illuminato dal Sole (simbolo della presenza divina) che allontana la paura e l'angoscia di Dante tipica della selva oscura.

Nei versi 22-27 vi è una similitudine classica, grammaticalmente corretta che fa riferimento al Libro I dell'Eneide, per mezzo della quale, Dante si presenta come il protagonista di un nuovo poema epico.

Nel verso 30 c'è un allegoria: Dante ha difficoltà a raggiungere la cima del colle (Dio) solamente affidandosi alle proprie capacità.

Nel verso 31 vi è uno stilema, ossia un elemento linguistico che distingue la scrittura di un autore da un altro (Ed ecco, …”).

Nel verso 32 è presente un’allegoria: la lonza rappresenta il vizio dell'animo umano, un peccato che porta alla perdizione, la lussuria. Un passo in Geremia descrive tre animali selvatici quali lonza, leone, lupa, che caleranno sugli abitanti di Gerusalemme per i peccati commessi, rispettivamente incontinenza, superbia, avarizia.

Nel verso 33 è presente un’ anastrofe (“che di pel macolato era coverta.”).

Nel verso 36 è presente una paronomasia (accostamento di due termini che hanno lo stesso suono ma significato diverso (“volte vòlto”).

Nel verso 45vi è un’ allegoria: il leone rappresenta la superbia.

Nei versi 49-50 vi sono un enjambement ed un’allegoria (la lupa rappresenta l’avarizia).

Nel verso 53 è presente una metonimia (“con la paura ch’uscia di sua vista”).

Nel verso 55 è presente una similitudine : Dante si sente come un giocatore d'azzardo davanti alla lupa.

Nel verso 60 vi è un’ ipallage/sinestesia, ossia due termini vicini che appartengono a due sfere sensoriali diverse (“mi ripigneva là dove ‘l sol tace”).

Nei versi 62-63 vi sono un’ anastrofe ed un enjambement.

Nel verso 65 vi è un latinismo (“Miserere abbi pietà di me!”).

Nel verso 67 vi è una duplicazione (“Non omo, omo già fui”).

Nei versi 70-75 vi è una perifrasi che si riferisce alla vita ed alla fama di Virgilio

Nei versi 70-78 Virgilio rappresenta allegoricamente i principi morali e la rettitudine che devono guidare l'uomo durante la sua vita.

Nel verso 80 vi è una metafora: Dante  paragona Virgilio a una sorgente dalla quale sgorga ed espande il lago di eloquenza

Nel verso 101 vi è un’ allegoria: il Veltro , secondo Boccaccio, appartiene a una specie di cani nemici dei lupi. Dante auspica l'intervento di una figura che contrasti in modo energico la sete dei beni materiali.

Nel verso 109 vi è una metonimia (“questi la caccerà per ogne villa” viene usata villa al posto di Terra).

Nel verso 117 vi è una  riferita all’Inferno e alla dannazione delle anime che non si sono, in vita, pentite dei peccati commessi

Nel verso 118 vi è un’antitesi (anime infernali -anime beate).

Nei versi 113-126 vi è una perifrasi sul viaggio che Dante intraprenderà e sulle guide che lo assisteranno (Virgilio e Beatrice).

Nel verso 127 vi è un latinismo (“quivi”).

Nel verso 132 vi è un’ endiadi.

Commenti

Post popolari in questo blog

Analisi del testo. Tre cose solamente mi so 'n grado di Cecco Angiolieri

Testo Tre cose solamente mi so 'n grado, le quali posso non ben men fornire: ciò è la donna, la taverna e 'l dado; queste mi fanno 'l cuor lieto sentire. Ma sì me le conven usar di rado, ché la mie borsa mi mett'al mentire; e quando mi sovvien, tutto mi sbrado, ch'i' perdo per moneta 'l mie disire. E dico: – Dato li sia d'una lancia! – Ciò a mi' padre, che mi tien sì magro, che tornare' senza logro di Francia. Trarl'un denai' di man serìa più agro, la man di pasqua che si dà la mancia, che far pigliar la gru ad un bozzagro. Parafrasi Solamente tre cose mi piacciono delle quali, però, non posso disporre: cioè la donna, l'osteria e il gioco d'azzardo; queste cose rendono allegro il mio cuore. Purtroppo, posso permettermele di rado perché la mia borsa non mi consente di realizzare tutti i miei desideri; quando mi rendo conto di ciò, mi metto a sbraitare poiché per mancanza di denaro perdo il mio desiderio. Perciò, dico a me stesso ch

Wars and social revolt in 14th century

Agincourt battle In 1337, war between England and France broke out when Edward III claimed the vacant throne of France. One of the most famous victories in English history was achieved by Henry V at Agincourt. The conflict was interrupted by other tragic events such as the Bubonic plague or Black Death. Under Henry VI's reign, the French obtained spectacular victories thanks to Joan of Arc. In the end, the English kings had lost all their continental possessions. Opposition to the Church developed in the second half of the 14th century under the leadership of John Wycliffe, a member of Oxford University who attacked the supremacy of the Pope. From 1454 to 1485 there was a civil war between the two noble houses of York and Lancaster. It was called the War of the Roses because symbols of Lancaster and York families were respectively red rose and white rose. The war was won by Henry Tudor of the Lancastrian dynasty, and he became Henry VII of England.

Comparison between Joyce's "Ulysses" and Woolf's "Mrs Dalloway"

James Joyce (1882-1941) and Virginia Woolf (1882-1941) belonged to the first generation of Modernists and it’s possible to make a comparison between their literary production analyzing their masterpieces: Ulysses and Mrs Dalloway . Ulysses Ulysses is one of the greatest examples of reworking of myth in Modernist literature. Joyce uses the epic model to stress the lack of heroism, ideals, love and trust in the modern world. The plot utterly takes place in Dublin in a single day which involves the life of three characters: Leopold Bloom, an advertising agent, Sthephen Dedalus, a sensitive young man with literary ambitions, and Molly Bloom, Leopold’s wife. Leopold Bloom, compared to Homer’s Ulysses, makes common actions: he wanders throughout the day in the streets of Dublin making errands, stopping at the advertising office and joining a funeral. He is distressed with two deep emotional burdens: the unsolved grief over his baby son’s death and the crumbling relationship with his unfa

The Ballad of Lord Randal

Text "O where ha you been, Lord Randal, my son? And where ha you been, my handsome young man?” I ha been at the greenwood; mother, mak my bed soon, “For I’m wearied wi hunting and fain wad lie down.” “An wha met ye there, Lord Randal, my son? An wha met you there, my handsome young man?” “O I met wi my true-love; mother, mak my bed soon, “For I’m wearied wi hunting and fain wad lie down.” “And what did she give you, Lord Randal, my son? And what did she give you, my handsome young man?” “Eels fried in a pan; mother, mak my bed soon, “For I’m wearied wi hunting and fain wad lie down.” “An wha gat your leavins, Lord Randal my son? And wha gat your leavins, my handsome young man?” “ My hawks and my hounds; mother, mak my bed soon, “For I’m wearied wi hunting and fain wad lie down.” “And what becam of them, Lord Randal my son? And what becam of them, my handsome young man?” “ They stretched their legs out and died; mother, mak my bed soon, “For I’m wearied wi hunting and fain wad lie

Giovanni Pascoli: Lavandare

Testo Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese, quando partisti, come son rimasta, come l’aratro in mezzo alla maggese. Analisi e commento Lavandare è un madrigale, ossia un componimento metrico breve a sfondo pastorale, scritto da Giovanni Pascoli ed appartenente alla raccolta Myricae . In questa raccolta l'autore parla della natura che ci circonda, la campagna e gli oggetti quotidiani, osservandoli con lo stupore e la meraviglia di un bambino. Essa incorpora componimenti brevi e lineari che illustrano quadretti di vita campestre che, circondandosi di un alone di mistero, evocano l'idea della morte. Questa caratteristica è presente in Lavandare , nella quale emergono i temi ricorrenti nelle poesie di Pascoli: l'abbandono e la solitudine. Il

Analisi del testo. La vita fugge, et non s'arresta una hora di Francesco Petrarca

Testo La vita fugge, et non s'arresta una hora, et la morte vien dietro a gran giornate, et le cose presenti et le passate mi dànno guerra, et le future anchora; e 'l rimembrare et l'aspettar m'accora, or quinci or quindi, sí che 'n veritate, se non ch'i' ò di me stesso pietate, i' sarei già di questi penser' fòra. Tornami avanti, s'alcun dolce mai ebbe 'l cor tristo; et poi da l'altra parte veggio al mio navigar turbati i vènti; veggio fortuna in porto, et stanco omai il mio nocchier, et rotte arbore et sarte, e i lumi bei che mirar soglio, spenti. Parafrasi La vita fugge e non si ferma nemmeno un'ora, e la morte arriva a marce forzate, e, pertanto, tormenta sia il presente che il passato ed anche il futuro; la mia anima è angosciata sia nel ricordo del passato che nell'attesa del futuro, per cui se ad impedirmelo non fosse la pietà che avverto per la mia anima, avrei posto fine alla mia esistenza. A consolarmi è il ricordo di qu

I contributi a livello di poesia di Francesco Petrarca e Dante Alighieri a confronto

  Francesco Petrarca: confronto con Dante Alighieri e i suoi importanti contributi alla nascita della poesia ed allo sviluppo ed alla diffusione della letteratura italiana in Europa   Francesco Petrarca e Dante Alighieri sono considerati insieme a Giovanni Boccaccio i padri fondatori della letteratura italiana ed è proprio in base alle tematiche ed ai canoni stilistici adottati dai tre poeti che si è sviluppata la stessa poesia. Le opere celebri dei due poeti sono degli esempi: la “Commedia” ( o “Divina Commedia” come l’ha rinomata Boccaccio in una delle sue “Letture della Commedia” ) rimane nella letteratura italiana un’opera inimitabile mentre il Canzoniere  è considerata l’opera più imitata tanto che dal Trecento fino ai primi anni del Novecento molti poeti si avvalgono di parecchi “petrarchismi”. La prima differenza che si può notare tra i due intellettuali è l’attenzione rivolta al mondo classico: Dante, uomo del Medioevo, non avverte alcun distacco tra il mondo di valori