Ritornato in possesso delle proprie facoltà dopo lo
svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca, Dante si rende conto
di essere entrato nel terzo cerchio.
Il paesaggio è grigio, freddo ed untuoso ed accoglie le
anime dannate dei golosi.
Essi vengono investiti da una pioggia fredda, incessante,
mista ad acqua sporca e neve, costretti a voltolarsi in un fango maleodorante
che contrasta con la prelibatezza e i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in
vita, il che rende piuttosto evidente il contrappasso.
La pena dei dannati è accresciuta dalla presenza di Cerbero
che li rintrona col suo latrato e li graffia (“iscoia ed isquatra”)
proprio come se fossero cibi da cucinare.
Cerbero, tratto dalla mitologia greca, è un cane mastino a tre teste ed il suo corpo è ricoperto di serpenti velenosi che si rizzano facendo sibilare le proprie orrende lingue ad ogni suo latrato il quale ad un rombo di tuono.
Il demonio, secondo la mitologia greca, aveva il compito di
sorvegliare l'accesso dell'Ade o Averno affinché nessuno dei morti potesse
uscirvi; nessuno è mai riuscito a domarlo,
tranne Eracle e Orfeo.
Eracle, infatti, assalì e soffocò Cerbero e lo portò
a Micene da Euristeo al fine di dimostrare di aver sconfitto il
mostro in combattimento, mentre Orfeo, che doveva recarsi nell'Ade per
riportare la defunta Euridice nel regno dei vivi, suonò la sua lira
per incantare il guardiano.
Questo personaggio, come Caronte e Minosse, viene descritto
nell’ Eneide da Virgilio nel modo
seguente:
"L'enorme Cerbero col suo latrato da tre fauci
rintrona questi regni giacendo immane davanti all'antro. La veggente, vedendo
ormai i suoi tre colli diventare irti di serpenti gli getta una focaccia
soporosa con miele ed erbe affatturate. Quello, spalancando con fame rabbiosa
le tre gole l'afferra e sdraiato per terra illanguidisce l'immane dorso e
smisurato si stende in tutto l'antro. "
A differenza del
poeta latino e di altri, Dante Alighieri descrive la creatura mitologica in modo
molto particolare in quanto le conferisce dei tratti umani: la barba e
le unghiate mani.
Cerbero, inoltre, viene presentato attraverso tre
apposizioni "fiera", "vermo" e "demonio", secondo una rispettiva lettura classica, fantastica
e religiosa.
Egli ha gli occhi rossi, il ventre gonfio e le zampe dotate
di lunghi artigli con i quali riduce a brandelli le anime, graffiandole e
urlando contro di loro.
I dannati, a loro volta, imprecano come cani contro la
pioggia e si voltano sui fianchi per proteggersi.
Come Caronte e Minosse, egli rappresenta l'ennesimo caso di
divinità dell'Inferno demonizzata dal pensiero cristiano, con la funzione allegorica
di impedimentum morale alla discesa di Dante all'Inferno; infatti, il
mostro ringhia e mostra i denti ai due viaggiatori.
La creatura, tuttavia, viene neutralizzata da Virgilio che
le getta nelle tre gole una manciata di terra, gesto che ricorda quello della
Sibilla nel libro VI dell'Eneide (anche
se in quel caso la sacerdotessa lanciava a Cerbero una focaccia al miele) e che
rimanda alla natura demoniaca della stessa; infatti, è stata considerata
un'anticipazione di Lucifero (l’angelo decaduto avrà anch'egli tre facce,
simulando una bizzarra parodia della Trinità).
All’episodio virgiliano, Dante, secondo alcuni critici,
aggiunge un’eco biblico, connettendosi alla maledizione che Dio scaglia sul
serpente: “[…] terram comedes cunctis
diebus vitae tae” (“e terra sarà ciò
che mangerai per il resto della tua vita” Gn 3,14).
La punizione che il serpente riceve per aver spinto Eva a cibarsi del frutto dell’albero è di doversi nutrire della terra morta: in questa punizione Cerbero gli è ora compagno.
Dante e Virgilio proseguono il loro percorso fino a quando
una delle anime dannate si rivolge al poeta fiorentino, il quale non lo
riconosce a causa dell’aspetto fangoso.
Il dannato allora precisa che è stato un cittadino di Firenze ed il suo nome è Ciacco (del quale parla anche Boccaccio nel Decameron, IX-8), condannato al terzo cerchio infernale per il suo peccato di gola.
Riguardo l’identità di Ciacco vi sono diverse versioni.
Secondo alcuni critici, si tratta del poeta fiorentino
Ciacco dell’Anguillaia, attivo nel Duecento, ma non ci sono prove sufficienti
per sostenere tale ipotesi.
Altri studiosi di Dante affermano, invece, in base ad un profilo biografico riportato in un commento trecentesco, che si tratti di un banchiere fiorentino che mangiò e bevve così tanto che gli si ammalarono gli occhi; finì, quindi, col non poter più contare il denaro, divenendo lo zimbello del popolo. Conobbe Dante e morì quando il poeta aveva quattordici anni.
Dante, successivamente, gli pone tre domande riguardanti la
sua città natale Firenze: quale sarà l’esito delle lotte politiche tra le
fazioni dei guelfi bianchi e dei guelfi neri? Ci sono cittadini giusti a
Firenze? Perché Firenze è in eterna guerra civile?
A questo punto è bene precisare che il canto VI di ciascuna
Cantica è di argomento politico, secondo un climax ascendente che va da
Firenze, all'Italia (Purgatorio, canto VI) ed, infine, all'Impero (Paradiso, VI).
Alla prima domanda Ciacco risponde con una profezia sostenendo
che i guelfi bianchi e quelli neri verranno allo scontro fisico con l’azzuffa
di Calendimaggio (1300): la fazione dei Bianchi, guidata dalla famiglia dei
Cerchi, caccerà quella dei Neri. Nel giro di tre anni, però, i Bianchi cadranno
quando i Neri rientreranno grazie a uno stratagemma di papa Bonifacio VIII, un
personaggio che è in bilico tra i due partiti.
La profezia nella Commedia
diventa uno degli aspetti più significativi affinché la narrazione del
viaggio di Dante nell’aldilà possa incidere sulla dimensione terrena.
Dante, come i profeti biblici, vuole che la sua opera
denunci i problemi che coinvolgono l’attualità, in specie fiorentina.
Per questo, egli inserisce nel poema profezie relative sia
alla storia collettiva sia alla propria biografia.
Le profezie si suddividono in ante eventum, enunciate prima che un evento si realizzi, e post eventum, ovvero narrazioni di fatti che nella realtà storica sono già avvenuti, ma che nella Commedia, ambientata nel 1300 ma scritta in seguito, si fingono futuri. Quest’ultimo è il caso della profezia di Ciacco e della maggior parte di quelle inserite nel poema.
Riguardo la seconda domanda, Ciacco risponde che i giusti
“sono in due”, ma non li ascolta nessuno.
Per la terza domanda, Ciacco afferma che la superbia,
l’invidia e l’avarizia (rappresentate nel Proemio dalle tre fiere) sono le tre
cause che hanno acceso le lotte politiche.
Appena Ciacco tace, Dante gli chiede se sa del destino
ultraterreno di alcuni fiorentini: Farinata degli Uberti, Jacopo Rusticucci,
Arrigo e Mosca da Lamberti.
Ciacco in modo laconico risponde dicendo che questi sono tra
le anime peggiori e si trovano nel profondo dell’Inferno.
L’anima dannata, poi, strabuzza gli occhi e ricade nel fango
insieme alle altre anime.
A questo punto, Virgilio spiega a Dante che Ciacco non si
risolleverà più fino al suono della tromba dell’angelo che preannuncia il
Giudizio Universale: in quel caso, tutte le anime riprenderanno il corpo
mortale ed ascolteranno la sentenza finale che deciderà del loro destino
ultraterreno.
Dante chiede ancora alla sua guida se dopo il Giudizio
Universale i tormenti dei dannati cesseranno o rimarranno uguali.
Allora il poeta latino fa riferimento alla fisica
aristotelica, in base alla quale quanto più una cosa è perfetta tanto più è in
grado di percepire sia il dolore che il piacere.
È evidente che Virgilio vuole far intendere a Dante che, in pieno rispetto del sistema delle pene in vigore all’Inferno, questo tendere alla perfezione, porterà i dannati ad accrescere la loro capacità di provare dolore.
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