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Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Canto VI- Inferno

Ritornato in possesso delle proprie facoltà dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca, Dante si rende conto di essere entrato nel terzo cerchio.

Il paesaggio è grigio, freddo ed untuoso ed accoglie le anime dannate dei golosi.

Essi vengono investiti da una pioggia fredda, incessante, mista ad acqua sporca e neve, costretti a voltolarsi in un fango maleodorante che contrasta con la prelibatezza e i profumi dei cibi di cui furono ghiotti in vita, il che rende piuttosto evidente il contrappasso.

La pena dei dannati è accresciuta dalla presenza di Cerbero che li rintrona col suo latrato e li graffia (“iscoia ed isquatra”) proprio come se fossero cibi da cucinare.

Cerbero, tratto dalla mitologia greca, è un cane mastino a tre teste ed il suo corpo è ricoperto di serpenti velenosi che si rizzano facendo sibilare le proprie orrende lingue ad ogni suo latrato il quale ad un rombo di tuono.

Il demonio, secondo la mitologia greca, aveva il compito di sorvegliare l'accesso dell'Ade o Averno affinché nessuno dei morti potesse uscirvi; nessuno è mai riuscito a domarlo, tranne Eracle e Orfeo.

Eracle, infatti, assalì e soffocò Cerbero e lo portò a Micene da Euristeo al fine di dimostrare di aver sconfitto il mostro in combattimento, mentre Orfeo, che doveva recarsi nell'Ade per riportare la defunta Euridice nel regno dei vivi, suonò la sua lira per incantare il guardiano.

Questo personaggio, come Caronte e Minosse, viene descritto nell’ Eneide da Virgilio nel modo seguente:

"L'enorme Cerbero col suo latrato da tre fauci rintrona questi regni giacendo immane davanti all'antro. La veggente, vedendo ormai i suoi tre colli diventare irti di serpenti gli getta una focaccia soporosa con miele ed erbe affatturate. Quello, spalancando con fame rabbiosa le tre gole l'afferra e sdraiato per terra illanguidisce l'immane dorso e smisurato si stende in tutto l'antro. "

A differenza del poeta latino e di altri, Dante Alighieri descrive la creatura mitologica in modo molto particolare in quanto le conferisce dei tratti umani: la barba e le unghiate mani.

Cerbero, inoltre, viene presentato attraverso tre apposizioni "fiera", "vermo" e "demonio", secondo una rispettiva lettura classica, fantastica e religiosa.

Egli ha gli occhi rossi, il ventre gonfio e le zampe dotate di lunghi artigli con i quali riduce a brandelli le anime, graffiandole e urlando contro di loro.

I dannati, a loro volta, imprecano come cani contro la pioggia e si voltano sui fianchi per proteggersi.

Come Caronte e Minosse, egli rappresenta l'ennesimo caso di divinità dell'Inferno demonizzata dal pensiero cristiano, con la funzione allegorica di impedimentum morale alla discesa di Dante all'Inferno; infatti, il mostro ringhia e mostra i denti ai due viaggiatori.

La creatura, tuttavia, viene neutralizzata da Virgilio che le getta nelle tre gole una manciata di terra, gesto che ricorda quello della Sibilla nel libro VI dell'Eneide (anche se in quel caso la sacerdotessa lanciava a Cerbero una focaccia al miele) e che rimanda alla natura demoniaca della stessa; infatti, è stata considerata un'anticipazione di Lucifero (l’angelo decaduto avrà anch'egli tre facce, simulando una bizzarra parodia della Trinità).

All’episodio virgiliano, Dante, secondo alcuni critici, aggiunge un’eco biblico, connettendosi alla maledizione che Dio scaglia sul serpente: “[…] terram comedes cunctis diebus vitae tae” (“e terra sarà ciò che mangerai per il resto della tua vita” Gn 3,14).

La punizione che il serpente riceve per aver spinto Eva a cibarsi del frutto dell’albero è di doversi nutrire della terra morta: in questa punizione Cerbero gli è ora compagno.

Dante e Virgilio proseguono il loro percorso fino a quando una delle anime dannate si rivolge al poeta fiorentino, il quale non lo riconosce a causa dell’aspetto fangoso.

Il dannato allora precisa che è stato un cittadino di Firenze ed il suo nome è Ciacco (del quale parla anche Boccaccio nel Decameron, IX-8), condannato al terzo cerchio infernale per il suo peccato di gola.

Riguardo l’identità di Ciacco vi sono diverse versioni.

Secondo alcuni critici, si tratta del poeta fiorentino Ciacco dell’Anguillaia, attivo nel Duecento, ma non ci sono prove sufficienti per sostenere tale ipotesi.

Altri studiosi di Dante affermano, invece, in base ad un profilo biografico riportato in un commento trecentesco, che si tratti di un banchiere fiorentino che mangiò e bevve così tanto che gli si ammalarono gli occhi; finì, quindi, col non poter più contare il denaro, divenendo lo zimbello del popolo. Conobbe Dante e morì quando il poeta aveva quattordici anni.

Dante, successivamente, gli pone tre domande riguardanti la sua città natale Firenze: quale sarà l’esito delle lotte politiche tra le fazioni dei guelfi bianchi e dei guelfi neri? Ci sono cittadini giusti a Firenze? Perché Firenze è in eterna guerra civile?

A questo punto è bene precisare che il canto VI di ciascuna Cantica è di argomento politico, secondo un climax ascendente che va da Firenze, all'Italia (Purgatorio, canto VI) ed, infine, all'Impero (Paradiso, VI).

Alla prima domanda Ciacco risponde con una profezia sostenendo che i guelfi bianchi e quelli neri verranno allo scontro fisico con l’azzuffa di Calendimaggio (1300): la fazione dei Bianchi, guidata dalla famiglia dei Cerchi, caccerà quella dei Neri. Nel giro di tre anni, però, i Bianchi cadranno quando i Neri rientreranno grazie a uno stratagemma di papa Bonifacio VIII, un personaggio che è in bilico tra i due partiti.

La profezia nella Commedia diventa uno degli aspetti più significativi affinché la narrazione del viaggio di Dante nell’aldilà possa incidere sulla dimensione terrena.

Dante, come i profeti biblici, vuole che la sua opera denunci i problemi che coinvolgono l’attualità, in specie fiorentina.

Per questo, egli inserisce nel poema profezie relative sia alla storia collettiva sia alla propria biografia.

Le profezie si suddividono in ante eventum, enunciate prima che un evento si realizzi, e post eventum, ovvero narrazioni di fatti che nella realtà storica sono già avvenuti, ma che nella Commedia, ambientata nel 1300 ma scritta in seguito, si fingono futuri. Quest’ultimo è il caso della profezia di Ciacco e della maggior parte di quelle inserite nel poema.

Riguardo la seconda domanda, Ciacco risponde che i giusti “sono in due”, ma non li ascolta nessuno.

Per la terza domanda, Ciacco afferma che la superbia, l’invidia e l’avarizia (rappresentate nel Proemio dalle tre fiere) sono le tre cause che hanno acceso le lotte politiche.

Appena Ciacco tace, Dante gli chiede se sa del destino ultraterreno di alcuni fiorentini: Farinata degli Uberti, Jacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca da Lamberti.

Ciacco in modo laconico risponde dicendo che questi sono tra le anime peggiori e si trovano nel profondo dell’Inferno.

L’anima dannata, poi, strabuzza gli occhi e ricade nel fango insieme alle altre anime.

A questo punto, Virgilio spiega a Dante che Ciacco non si risolleverà più fino al suono della tromba dell’angelo che preannuncia il Giudizio Universale: in quel caso, tutte le anime riprenderanno il corpo mortale ed ascolteranno la sentenza finale che deciderà del loro destino ultraterreno.

Dante chiede ancora alla sua guida se dopo il Giudizio Universale i tormenti dei dannati cesseranno o rimarranno uguali.

Allora il poeta latino fa riferimento alla fisica aristotelica, in base alla quale quanto più una cosa è perfetta tanto più è in grado di percepire sia il dolore che il piacere.

È evidente che Virgilio vuole far intendere a Dante che, in pieno rispetto del sistema delle pene in vigore all’Inferno, questo tendere alla perfezione, porterà i dannati ad accrescere la loro capacità di provare dolore.

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