Dante e Virgilio si trovano davanti alla porta di ingresso, la cui posizione non è precisata, che porterà all’Inferno.
Il poeta inizia il terzo canto riportando la famosa scritta di colore scuro che campeggia sulla porta:
"Per me si va ne
la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".
Secondo alcuni critici, il colore scuro della scritta è da ricondurre alla presenza della caligine infernale, per altri, invece, il colore scuro allegoricamente rappresenta la morte.
Il poeta precisa che, proseguendo quella strada che conduce alla città della pena, vedrà coloro che sono perduti in un dolore eterno e che hanno, ormai, abbandonato la speranza di poter raggiungere la salvezza.
Il poeta fiorentino riconosce nella città dolente diversi tratti comuni con la città di Firenze ed è, pertanto, in opposizione alla città divina (Gerusalemme)che è paragonabile ad una Roma imperiale; infatti, in questa città prevale l’egoismo e non il bene comune.
I due viandanti, successivamente, si dirigono verso il luogo dove vi sono i peccatori che hanno perso il bene dell’intelletto.
L'ingresso nell'Inferno ha un effetto traumatico per Dante, colpito da sensazioni visive (l'oscurità fitta, l’assenza del firmamento) e uditive (le disperate grida dei dannati) che lo angosciano e provocano in lui il pianto, come altre volte avverrà nella Cantica; infatti, il poeta, turbato dalle grida, dai gemiti e dal battere delle mani delle anime dannate, paragona quei suoni al vento quando solleva vorticosamente la sabbia.
L’ Antinferno (o il Vestibolo) è il primo luogo dell'Oltretomba a essere visitato.
Interpella, così, Virgilio chiedendo delle spiegazioni riguardo alla pena delle anime che risiedono nel Vestibolo.
Virgilio afferma che il luogo in cui si trovano è abitato dagli ignavi, non propriamente dannati, ma delle anime disgraziate, vissute senza onore e senza disonore condannate a una pena molto severa, che rispetta la legge del contrappasso: come in vita essi non si sono mai schierati da una parte o dall’altra in un conflitto, in morte sono costretti a seguire perennemente uno stendardo che non presenta scritte e cambia continuamente direzione, aspetto che rimarca come la vita terrena degli ignavi fosse priva di scopo (Dante li definisce “sciaurati, che mai non fur vivi”).
Essi, inoltre, sono completamente nudi e tormentati da mosconi e vespe che, pungendoli, fanno colare il sangue, il quale, mischiato alle lacrime, viene raccolto da vermi disgustosi.
Il poeta latino, inoltre, tiene a precisare che gli ignavi vivono in una condizione così terribile che invidiano quella di ogni altro dannato.
Tra essi è citato, indirettamente, papa Celestino V (Pier di Morrone), “colui / che fece per viltade il gran rifiuto” che abdicò al papato nel 1294 dopo aver retto la Chiesa per neppure quattro mesi.
Dante gli rimproverava di aver ceduto la tiara a Bonifacio VIII, suo acerrimo nemico e artefice del suo esilio in seguito alla vittoria dei guelfi neri a Firenze.
L'identificazione pare certa, anche se non sono mancati commentatori che hanno visto in lui altri personaggi, come Esaù, Pilato, Giuliano l'Apostata. Insieme a loro vi sono gli angeli neutrali che, al momento della ribellione di Lucifero contro Dio, non si scontrarono con il Creatore né si unirono al coro dei Suoi angeli, ma restarono da parte; la presenza di questi personaggi nell'Antinferno è motivata da Virgilio col fatto che i dannati potrebbero attribuirsi dei meriti rispetto a loro, il che spiega anche il disprezzo mostrato dal maestro e il suo invito a Dante di proseguire il loro viaggio.
Lo sguardo di Dante va verso la riva del fiume Acheronte e chiede incuriosito alla sua guida perché queste anime sono ansiose di passare dall’altra parte.
All’improvviso vedono avvicinarsi un vecchio che gridando li invita a salire sulla barca per portarli sull’altra riva: è Caronte.
Caronte, figlio di Erebo (la tenebra) e della Notte, è un personaggio mitologico greco che ha il compito di traghettare le anime nell’aldilà.
Per questo suo ruolo, la superstizione popolare riteneva che pretendesse il pagamento di un obolo che i parenti o gli amici del morto dovevano porre in bocca sotto la lingua del defunto, in modo che l’anima potesse la sua sede definitiva.
Chi non aveva sepoltura doveva vagare cento anni sulle rive del fiume infernale prima che Caronte potesse concedergli il passaggio.
Per descrivere Caronte, Dante fa riferimento al traghettatore delle anime del VI canto dell’Eneide :
“Chi controlla queste acque di confine è
Caronte, un marinaio terrificante,
dall’aspetto orribile, ha una grandissima
barba incolta,
due occhi di fiamma e gli pende dalle
spalle una squallida veste. […]
Governa da solo la zattera, spingendola
con un palo e regolando le vele,
trasporta le anime nella sua barchetta di color ferrigno.
Ḕ vecchio, ma di una vecchiezza
Innaturalmente fresca e robusta.”
Il Caronte dantesco, comunque, rispetto a quello classico, presenta dei tratti demoniaci come gli occhi circondati di fiamme, ed è inserito decisamente nell’universo cristiano: è un demone, emanazione di Satana e strumento di Dio, vincolato allo spazio infernale e privo di libertà.
La violenza delle sue imprecazioni e dei suoi gesti contro le anime dannate è un segno di imponente ribellione (come la figura di Minosse ed altri demoni) così come è velleitaria la bestemmia dei dannati, incapaci di adeguarsi alla giustizia del sommo fattore.
La reazione del demone all'apparire di Dante, un essere umano vivo, è analoga a quella degli altri guardiani infernali che il poeta incontrerà più avanti: Caronte tenta di spaventarlo e di impedire il suo viaggio attraverso l'Inferno.
I demoni simboleggiano gli impedimenti di natura peccaminosa che ostacolano il cammino di redenzione dell'anima umana; infatti, non a caso, è sempre Virgilio (allegoria della ragione) a zittirli e a consentire il passaggio di Dante.
Vedendo che Dante non è intenzionato a retrocedere, Caronte gli fa una profezia, affermando che è destinato ad approdare ad altri porti e che sarà portato da una barca più lieve della sua, ovvero quella dell'angelo nocchiero del Purgatorio.
Immediatamente Virgilio zittisce Caronte con una formula (“vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”) che userà, con lievi varianti, anche con Minosse e con Pluto.
Caronte, quindi, torna ad invitare le anime dannate con parole crudeli a sederi sulla zattera.
I dannati sono descritti nella loro fisicità, come corpi nudi e prostrati, che si assiepano sulla riva dell'Acheronte ansiosi di passare dall'altra.
I dannati bestemmiano e maledicono il giorno in cui sono nati, secondo i modelli biblici di Giobbe e di Geremia; hanno un aspetto corporeo, in quanto le pene che dovranno subire provocheranno in loro un dolore fisico.
Come le foglie , d’autunno, si staccano dal ramo, finché il ramo stesso può vederle tutte sulla terra, come fossero le sue spoglie, allo stesso modo, lentamente, i dannati si staccano dal gruppo per partire.
I dannati si muovevano da una riva all’altra come il falcone che si muove lentamente al richiamo del cacciatore.
Il loro gran numero, come del resto quello degli ignavi, lascia intendere la diffusione del male e del peccato sulla Terra, come appare chiaro dal fatto che Caronte cerchi di stiparne il più possibile sulla sua barca (colpendo col remo chiunque tenti di adagiarsi sul fondo, per occupare meno spazio) e dal fatto che, prima che il traghettatore sia giunto sull'altra sponda, su quella opposta si è già formata una schiera altrettanto folta.
Dopo che Caronte si è allontanato, Virgilio finalmente rompe il silenzio e spiega a Dante che quelle anime sono appartenute a coloro che hanno commesso peccati mortali; inoltre, esse sono ansiose di raggiungere l’altra sponda perché sono spronate dalla giustizia divina.
Appena finisce di parlare, la pianura viene scossa da un forte terremoto e Dante, profondamente turbato e provato, perde i sensi e si accascia.
La chiusa del canto col terremoto, la cui causa non è specificata da Dante, è alquanto enigmatica.
Sembra che il poeta utilizzi questo avvenimento come espediente narrativo per descrivere lo svenimento del poeta e farlo poi risvegliare al di là del fiume infernale (questo stratagemma verrà utilizzato anche nella chiusa del Canto V).
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