Essi incontrano Minosse, il giudice infernale che ascolta le
confessioni delle anime dannate ed indica loro in quale cerchio si devono
recare attorcigliando la coda intorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi
che il dannato deve, poi, discendere.
La figura di Minosse come giudice infernale risale al mito
greco.
Egli, figlio di Zeus e di Europa, fu re di Creta e marito di
Pasifae che, accoppiatasi con un toro, partorì il Minotauro, un mostro con la
testa taurina e il corpo umano.
Quest’ultimo, per volere dello stesso Minosse, fu rinchiuso
in un labirinto appositamente costruito da Dedalo.
Dopo la morte, Minosse fu nominato da Zeus membro del
collegio giudicante dell’Inferno.
Egli viene descritto con dovizia di particolari dallo stesso
Omero nell'Odissea (XI, 568-571):
“E vidi Minosse, lo splendido figlio di Zeus,
con scettro d’oro fare
ai morti giustizia,
seduto; e intorno al
sire si difendevano quelli,
seduti o in piedi
nella dimora ampie porte dell’Ade”
A differenza di Omero e di altri poeti latini che hanno trattato nelle loro opere questa figura mitologica (anche lo stesso Virgilio), il Minosse di Dante Alighieri appare degradato a demonio mostruoso e ringhiante, un “cane” furente divorato dalla rabbia che usa la coda come strumento (e non lo scettro d’oro) della sua funzione di implacabile giustiziere.
Il poeta fiorentino opera su questo personaggio una
riduzione, ossia un abbassamento tanto da avvolgere tutta la rappresentazione
nel grottesco.
Secondo alcuni critici, Minosse è un mostro che giudica con
una rapidità sconcertante perché esegue esclusivamente la volontà di Dio.
La sua immobilità e il suo silenzio segnano l’indifferenza e
la mancanza di autonomia del custode infernale di fronte alle anime dei
peccatori.
I critici Francesco di Bartolo (detto anche Francesco di
Bartolo da Buti) e Cristoforo Landino sostengono, invece, che Minosse
rappresenta un’allegoria: è la coscienza individuale che, per i dannati, non è
più mezzo di ravvedimento, ma di rimorso.
I tratti del “cane” rabbioso attribuiti a Minosse indicano
il rimorso e l’amarezza che prova la coscienza di ciascun dannato davanti alla
gravità del peccato; infatti, secondo Dante Alighieri la coscienza dell’uomo,
durante la sua esistenza, tenta in diverse occasioni di richiamarlo sulla retta
via.
Se, al contrario, l’uomo ha peccato ed è stato dannato, la
coscienza (Minosse) prova rabbia, amarezza e rimpianto perché ha tentato invano
di riportare l’uomo sulla via del Bene.
Inoltre, i critici affermano che Dante consapevolmente ha
rappresentato Minosse come demonio rabbioso e furente in quanto il grottesco,
molto diffuso nel Medioevo, richiama e rimarca la funzione didascalica della Divina Commedia, ossia rendere noto il
viaggio nei tre regni dell’oltretomba, inteso come la storia della redenzione personale
di Dante, il quale, metaforicamente, rappresenta l’intera umanità.
Minosse, appena si rende conto che Dante è ancora vivo,
interrompe il suo lavoro e lo redarguisce, invitandolo a non fidarsi di
Virgilio giacché ritiene che non sia semplice, poi, uscire dall'Inferno.
Allora Virgilio lo zittisce, precisandogli che il viaggio di
Dante è voluto da Dio.
Il poeta fiorentino fornisce una descrizione accurata
dell’ambiente e della pena che devono subire i dannati.
Il secondo cerchio infernale è un luogo buio dove soffia
incessantemente una terribile bufera e che ospita i lussuriosi.
La pena che ricevono i lussuriosi è per analogia: come in
vita essi hanno cercato di soddisfare i propri sensi contro ogni regola,
abbandonandosi smodatamente alle passioni, tanto da sottomettere la ragione ai
sentimenti, essi vengono spazzati e sbattuti da una bufera infernale da una
parte all'altra del secondo cerchio.
Quando le anime dei dannati giungono davanti ad un ostacolo,
inciampano ed emettono grida e lamenti e, per la sofferenza, bestemmiano Dio.
Dante, attraverso una similitudine, paragona la larga e
compatta schiera che formano le anime dannate agli stornelli in inverno quando
volano nel cielo.
All'improvviso Dante vede un’altra schiera di lussuriosi
morti violentemente.
Su indicazione di Virgilio, egli riconosce:
- Semiramide: era una leggendaria regina assiro-babilonese, moglie del leggendario re Nino, fondatore di Ninive. Dante la pone nel secondo cerchio infernale in quanto la regina era così lussuriosa che, per far in modo che il rapporto incestuoso che aveva instaurato con il figlio Nynias risultasse “normale”, promosse una legge, obbligando tutti i sudditi ad essere altrettanto lussuriosi.
- Didone: non viene nominata esplicitamente da Dante per delicatezza, in quanto ella è uno dei personaggi femminili più importanti dell’Eneide. Attraverso la perifrasi (“L’altra è colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo”), il poeta tende ad accrescere l’importanza della persona e, soprattutto, dell’atto che la condannò all'Inferno: non fu fedele al giuramento sulle ceneri di Sicheo, suo marito, e si tolse la vita per amore di Enea.
- Cleopatra: la regina d’Egitto viene considerata da Dante esemplare per lussuria, intesa come strumento per raggiungere il potere (amante prima di Cesare, che la pose sul trono d’Egitto dopo aver destituito il fratello di lei Tolomeo, e poi di Antonio, il quale si fece assegnare il controllo della provincia d’Egitto ed abbandonò Roma), come Semiramide e suicida per amore (dopo aver saputo della morte dell’amato durante la battaglia di Anzio, per non cadere vittima del vincitore Ottaviano Augusto, si uccise) come Didone.
- Elena di Troia: figlia del re spartano Menelao, venne rapita dal troiano Paride e fu così causa, per amore, della guerra di Troia.
- Achille: è da specificare che Dante si riferisce al protagonista della poesia latina Achilleide di Stazio (l’Iliade verrà tradotta in latino solo più tardi del Trecento). Egli, innamorato della figlia di Priamo, Polissena, morì per mano di Paride mentre si recava al Tempio di Apollo per avere in sposa la donna amata.
- Paride: rapì per amore Elena di Troia, causando così la decennale guerra di Troia e la caduta del regno, ed uccise Achille in un agguato.
- Tristano: egli incarna il ruolo di "martire" per amore nel mito di "Tristano e Isotta". Ferito gravemente in una spedizione, chiese soccorso ad Isotta ma ottenne un rifiuto dalla donna amata e, per questo motivo, si uccise. In realtà l’amante accettò la richiesta, ma la moglie di lui, scoperto il tradimento, fornì all'uomo una notizia falsa.
Il poeta fiorentino, allora, le chiama con un gesto carico di passione.
I due spiriti, così, volano verso di lui: sono un uomo ed una donna.
Dopo i convenevoli, quest'ultima precisa di essere nata a Ravenna e di aver amato in vita un uomo di un amore che lei sente ancora vivo.
Spiega, inoltre, che sono stati entrambi assassinati.
Anche in questo caso, Dante ricorre alla perifrasi per parlare di Paolo e Francesca.
Virgilio, vedendo Dante molto turbato, gli chiede il motivo; il poeta fiorentino afferma, così, di essere stato molto colpito da questo sentimento amoroso che ha portato i due dannati alla perdizione.
Francesca prende la parola e racconta nei minimi particolari la causa che ha portato lei ed il suo amante a questa tragedia.
Francesca, dopo la partenza del marito Gianciotto per motivi militari, insieme a Paolo, suo cognato, leggeva un libro che parlava di Lancillotto e Ginevra.
Più volte interrompevano la lettura e si cercavano con lo sguardo fino a baciarsi nel momento in cui era descritto il bacio dei due protagonisti.
Mentre Francesca racconta la loro relazione, Paolo piange.
Il poeta fiorentino si sente responsabile e coinvolto in prima persona nel loro peccato, in quanto è stato in passato uno scrittore di letteratura amorosa (Dolce Stil Novo).
Il turbamento che prova fin dall'inizio è, in realtà, l'intenzione di condannare pubblicamente la letteratura che celebra l'amore sensuale.
Egli, pertanto, ritratta parte della sua produzione poetica precedente e lo stesso Dolce Stil Novo.
Francesca è, in realtà, un personaggio significativo a tal riguardo poiché il caso suo e di Paolo doveva essere sicuramente un episodio di cronaca ben presente nei lettori contemporanei.
La vicenda non è riportata in nessun documento, ma i cronisti del tempo narrano di un adulterio tra Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, e il cognato Paolo Malatesta da Rimini, fratello di Gianciotto.
Francesca aveva sposato Gianciotto in un matrimonio combinato per riappacificare le due famiglie di provenienza.
Gianciotto, una volta scoperta la loro relazione, li aveva uccisi.
Dante, intanto, precisa che non ritiene che la loro morte potrà mai giustificare né la gravità del loro comportamento né il peccato stesso, ma si rivolge ai lettori della letteratura amorosa, illuminandoli sui rischi che essa comporta.
Lo stesso Dante sostiene che la loro colpa non è tanto di essersi innamorati, ma di aver messo in pratica il comportamento peccaminoso dei due personaggi del libro.
Il lettore viene invitato, pertanto, a non confondere la letteratura con la realtà visto che è stato proprio questo errore a fuorviare la coppia ed a portarla ad una dannazione eterna.
La pietà provata dal poeta verso di loro non è né compassione né riabilitazione del loro amore clandestino, ma è il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende coscienza della pericolosità della poesia amorosa, di cui è stato largamente autore.
Dante, sopraffatto da questo stato d'animo, sviene.
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