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Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Analisi del testo. L' ascesa al monte Ventoso di Francesco Petrarca

 Monte Ventoso

Testo

A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO,
DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO, PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA.
SUI PROPRI AFFANNI.

Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso [1]. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall'infanzia e questo monte, che a bell'agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. [...]
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena [2], alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che "l'ostinata fatica vince ogni cosa". [3] Il giorno lungo, l'aria mite, l'entusiasmo, il vigore, l'agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant'anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi - così sono i giovani, restii ad ogni consiglio - il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell'inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po' tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d'impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall'altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l'inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l'alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l'altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. [...]
C'è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il "Figliuolo"; perché non so dirti; se non forse per antifrasi, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c'è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. [...] Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. "Oggi - mi dicevo - si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna [4]: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell'ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino: 'Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell'anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio'. [5] Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta [6]: 'Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia'. [...]
Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d'aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m'ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l'ombra del monte s'allungava. [...] Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l'anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell'autore e di chi me l'ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d'infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott'occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: "e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi". [7] Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell'ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l'anima, di fronte alla cui grandezza non c'è nulla di grande.

Analisi del testo

L'epistola "L'ascesa al monte Ventoso" appartiene alla raccolta "Familiares" ed è destinata all'amico Dionigi da San Sepolcro, monaco agostiniano.
L'argomento trattato è la salita del poeta aretino e di suo fratello Gherardo al monte Ventoso, in Provenza.
All'inizio percorrono il primo tratto insieme fino a raggiungere il paese posto alle falde del monte.
Accompagnati da due servi, l'indomani affrontano il monte, scosceso e quasi inaccessibile.
Il clima mite, il vigore, la destrezza e la buona volontà aiutano i viandanti nei primi tratti.
Successivamente vengono dissuasi da un vecchio pastore dal continuare a percorrere quei luoghi.
Gli avvertimenti del vecchio invece di rabbonirli, li incoraggia ancora di più a continuare.
Il poeta si arrampica lentamente e, spesso, si muove verso il basso, alla ricerca di un sentiero più comodo.
Tutto ciò è un pretesto da parte sua per motivare la sua pigrizia.
I compagni, infatti, erano già in cima quando il poeta si è messo invano alla ricerca di una via migliore.
Infine, stanco ed affamato, raggiunge il fratello che, nel frattempo, si è rifocillato e riposato per riprendere, poi, il cammino.
Il poeta continua nei soliti tentativi alla ricerca di un possibile sentiero più agevole, ma per più di tre volte si ritrova in difficoltà.
Finalmente i viandanti arrivano alla cima del monte.
Petrarca, a questo punto, si immerge nei suoi pensieri e gode la vista del paesaggio montano che si estende dai monti della provincia di Lione fino al mare di Marsiglia.
Tanta bellezza ispira il poeta ad elevare la sua anima verso meditazioni più profonde e apre, pertanto, il libro delle "Confessioni di Sant'Agostino".
Il caso vuole che il passo selezionato rimane quanto di più adeguato alla circostanza del momento.
Sostiene, infatti, che gli uomini fanno lunghi percorsi per ammirare monti, oceani e cieli stellati, trascurando spesso se stessi.
Petrarca conclude la lettera nell'affermare che niente è più degno di ammirazione dell'anima.

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