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Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese


Il mare non bagna Napoli copertina

Ciao a tutti!

Oggi tratterò un romazo che è diventato ormai un classico della letteratura italiana scritto da Anna Maria Ortese: Il mare non bagna Napoli.

Il libro di Anna Maria Ortese Il mare non bagna Napoli si articola in due racconti (Un paio di occhiali, Interno familiare), che parlano di problemi familiari, e in tre reportage giornalistici (Oro a Forcella, La città involontaria, Il silenzio della ragione) che si dilungano sulla povertà materiale, uno dei tanti problemi di Napoli nell’immediato secondo dopoguerra.

Il primo reportage descrive la funzione del Monte dei Pegni gestito dal Banco di Napoli nella via di San Biagio dei Librai, a Forcella.

Il secondo reportage, invece, parla di come sono disorganizzati coloro che non hanno nemmeno un tetto.

Nell’ultimo reportage, la scrittrice si sofferma sull’indifferenza degli intellettuali progressisti come Domenico Rea, Pasquale Prunas, Gianni Scognamiglio (nel libro indicato con il cognome materno Gaedkens), Luigi Compagnone, Raffaele La Capria e lo stesso Vasco Pratolini, in quel momento presente a Napoli.

Ella sostiene che essi, pur conoscendo bene tutti i problemi che affliggono questa città, ne rimangono completamente estranei.

La scrittrice è profondamente amareggiata nei loro confronti tanto che li cita con le loro generalità, impadronendosi senza alcun riguardo anche della loro vita privata, portandola a conoscenza di tutti.

Ella, successivamente, non ritornerà mai più a Napoli e, come afferma in uno scritto a conclusione del libro Le Giacchette Grigie di Monte di Dio a chiarimento del suo comportamento, ribadisce che per quella iniziativa era rimasto in lei, comunque, un profondo senso di colpa.

 

Il primo racconto ha come protagonista Eugenia, una bambina, che, essendo molto miope, “quasi cieca”, desidera avere un paio di occhiali con i quali poter vedere il mondo fatto da Dio, con il vento, il sole, il mare pulito, le vetrine dei negozi di via Roma, i colori degli abiti eleganti delle persone ed anche le “belle automobili” e le carrozze “dipinte in rosso o in verde petrolio, tutte luccicanti”.

Ella vuole vedere, finalmente, il mondo che era fuori, ritenendolo “bello assai”.

In realtà, appena la mamma glieli porge, lei li indossa e vede, però, solo “l’acqua saponata, le foglie di cavolo, i rifiuti, pezzi di carta” e un gruppo di “cristiani cenciosi e deformi”.

Eugenia rimane, così, folgorata dalla luce della verità.

Il mondo che la circonda è troppo povero e per cambiarlo non bastano un paio di occhiali, né la speranza di un miglioramento.

L’ autrice, così, è in preda ad un profondo smarrimento di fronte a ciò che emerge dalla vita quotidiana nei vicoli di Napoli; rimane costernata e, pertanto, nell’incapacità di potersi confrontare con questa realtà aberrante.

 Come difesa adotta, pertanto, una perpetua polemica nei confronti di essa.

La sua scelta, però, dominata da un profondo dolore, le impedirà di vivere una realtà libera e sicura e mai avvertirà, purtroppo, quel sentimento di bellezza che porta all’armonia intorno a sé e né riscatterà dentro di sé il senso completo del mondo in tutte le sue diverse sfumature.

 

Nella scrittrice è presente sempre l’eterno rifiuto che, sistematicamente, la allontana dalla realtà e dalla verità.

La stessa Anastasia Finizio (personaggio principale del racconto Interno familiare), una donna non più giovane, si rassegna a vivere una vita in solitudine ed a lavorare per sostenere la propria famiglia.

Il caso, però, fa sì che ritorna un suo spasimante, Antonio Laurano.

Anastasia, così, incomincia a sognare: immagina quanto la sua vita potrebbe cambiare; purtroppo, però, il sorriso di Antonio la sconvolge e la attrae.

Ormai lei è troppo stanca e sente tutto il peso degli anni.

In alcuni momenti si sente terribilmente infelice. Ella è in grado solo di ricordare, ma non è più capace di coinvolgersi.

La delusione sarà fortissima alla notizia che Antonio si è fidanzato con un’altra e sarà resa ancora più cupa dalla morte della vicina Donn’Amelia, con il funerale fatto il giorno di Natale.

Il racconto inevitabilmente si chiuderà con una malinconica rassegnazione, Anastasia riporrà ancora una volta il mantello turchino per ritornare alle incombenze di tutti i giorni.

 

L’ autrice prosegue muovendosi nell’ambito dei reportage, analizzando minuziosamente le condizioni disumane della plebe a Napoli.

Ella descrive i volti, il rumore, il dolore proprio della tragedia, tanto che la città non sembra nemmeno più lambita dal mare, giacché rimane paralizzata in una vita pietrificata dalla miseria senza la possibilità di sperare in qualcosa di diverso.

Particolarmente drammatiche sono le descrizioni della quotidianità degli sfollati (descritte nel reportage La città involontaria) che non avendo un tetto, né cibo, né acqua per lavarsi, occupano un edificio, III e IV Granili, che, precedentemente, era stato adibito a caserma di fanteria e cavalleria.

 

Scene di continua miseria e pietà umana si verificano quotidianamente al Monte di Pietà.

È toccante l’episodio descritto dall’autrice nel reportage Oro a Forcella.

Ella descrive, infatti, una donna che con due bambini, per saltare la fila, tenta di impietosire gli altri motivando l’urgenza di avere al più presto quei pochi soldi poiché il marito deve raggiungere Torino, dove il figlio maggiore è gravemente ammalato.

Tale messinscena e la carica emotiva della presenza dei bambini le garantivano sempre il risultato, purtroppo, però, a danno del ricavato sull’oggetto che andava ad impegnare.

 

Ne Il silenzio della ragione è particolarmente polemica con gli intellettuali napoletani.

Questo reportage è una sorta di cronaca narrativa di cui memorabili sono i ritratti su Luigi Compagnone, impiegato all’Ufficio Prosa di Radio Napoli, e Domenico Rea.

Nella Napoli degli anni ’50 notevole fu il dissenso contro l’Ortese, dovuto all’aver reso noto dalla stessa il fallimento della classe intellettuale, definendola incapace di incidere significativamente sulla vita della città.

Tutti gli ideali marxisti di questi intellettuali, infatti, erano stati spazzati via dall’inettitudine della valutazione della scrittrice che, solo dopo 41 anni, poté raccontare il retroscena nel successivo lavoro Le Giacchette Grigie di Monte di Dio.

A chiusura del libro, infatti, decide di scrivere una “paginetta” ad ulteriore chiarimento, precisando che la richiesta le è pervenuta mesi prima dai promotori della Mostra del “Gruppo Sud”:

 

“…

Mi sembra giusto chiudere con essa la nuova edizione del mio libro, a testimonianza di quanto la giovane Napoli di quel lontano dopoguerra, rappresentata dal “Gruppo Sud”, sia stata all’origine del Mare, sia stata suggerimento e sollecitazione e sostegno continuo nell’attuazione del mio progetto.

Infine, l’idea della intollerabilità del reale, idea su cui non mi ero mai fermata prima, mi ha reso finalmente più comprensibile la mia irritazione nel raccontare uomini e cose. Ora, tutto è pace, laggiù, ma la bandiera dell’Utopia, se sventola ancora, almeno nel mio cuore, la devo alle “Giacchette Grigie” di Monte di Dio.”

 

La scrittrice, per il suo comportamento, è stata ripetutamente accusata di essere affetta da un’autentica nevrosi.

In realtà, in questo libro si evidenzia tutta la sofferenza e l’indignazione della stessa.

Ella ammette tutte le sue paure e definisce la sua carica emotiva uno “spaesamento” (definizione che ne dà ne Il “mare” come spaesamento), cioè la sua incapacità di gestire tutta la negatività di questa condizione in quel particolare momento storico e sociale sia per Napoli che per tutto il mondo.

L’ incapacità, dunque, per la sua indole, di integrarsi nel meccanismo di mutazione delle cose che sono destinate, per la loro stessa essenza, a cambiare fino a distruggersi.

Alcuni critici, infatti, sostennero che la città di Napoli, da lei descritta, documentava una lacera condizione universale.

L’ autrice, a tale critica, tenne a precisare che il suo libro si poneva come obiettivo l’analisi del “male oscuro di vivere” in quel contesto a quelle condizioni (Il “mare” come spaesamento).

Purtuttavia, quel tanto di grazia e di bellezza che appaiono disseminate nel libro a piccoli sprazzi saranno, poi, sentimenti presenti nei suoi lavori successivi, giacché la scrittrice ribadirà nel reportage Il silenzio della ragione che, con il dolore e l’amore, si può crescere fronteggiando solo quella realtà che si evidenzia in maniera brutale, portandola inevitabilmente, così, al passaggio dall’ innocenza alla disillusione.

È evidente che rimane costante nell’autrice questa visione dura della realtà che la porta, sistematicamente, ad un disincanto nevrotico.

Da molti critici questo suo “spaesamento” viene visto come una sua esclusione, repulsione emotiva per la città di Napoli.

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