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Dubliners by J.Joyce (riferimento a 'Eveline' e 'The dead')

“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi

Analisi del testo. Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno di Francesco Petrarca




Testo

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.


Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?


Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.


Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.


Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
piú largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.


Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.


Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.


Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. –

Parafrasi 


Italia mia, anche se le parole sono inutili a sanare le piaghe mortali che vedo così numerose nel tuo bel corpo, voglio almeno che i miei sospiri siano in accordo con le speranze della terra che si stende fra il Tevere, l'Arno e il Po, dove ora mi trovo pieno di dolore e preoccupazione.

O Signore del cielo [Dio], io chiedo che la pietà che ti portò in terra Ti faccia rivolgere all’ Italia, il nobile paese oggetto della Tua predilezione.

Vedi, Signore cortese, quale guerra crudele è nata da cause così lievi; Padre, intenerisci e sciogli i cuori che il fiero e superbo Marte indurisce ed incatena; fa' in modo che la Tua verità si senta in cielo attraverso le mie parole, qualunque sia il mio valore.


Voi, ai quali la Fortuna ha messo in mano la guida delle belle terre d'Italia, di cui non sembrate avere alcuna pietà, che ci fanno qui tante spade straniere? Volete che il terreno verde si sporchi di sangue barbarico? Nutrite false speranze: vedete poco e vi sembra di vedere molto, poiché cercate amore o fedeltà in cuori venali [nei soldati mercenari].

Chi ha ai suoi ordini più soldati, è maggiormente circondato da nemici. O diluvio proveniente dai paesi più orridi e lontani, per inondare i nostri dolci campi! Se ciò avviene per nostra stessa iniziativa, chi potrà mai salvarci?



Natura provvide bene a nostro vantaggio, quando pose le Alpi come barriera tra noi e la rabbia tedesca; ma i ciechi desideri [dei signori italiani], ostinati contro i loro stessi interessi, si sono poi ingegnati al punto che hanno procurato una malattia al corpo sano [assoldando mercenari stranieri].

Ora nella stessa gabbia si annidano belve selvagge e greggi mansuete, in modo tale che è sempre il migliore ad avere la peggio: e per accrescere il nostro dolore, questo popolo è della stessa stirpe di quella gente senza civiltà a cui, come narra la storia, Gaio Mario inferse ferite così profonde che la memoria di quel gesto ancora non si estingue, quando [Mario], assetato e stanco, bevve dal fiume [vicino al campo di battaglia], più sangue [dei nemici] che acqua.


Non parlo di Cesare che in ogni luogo macchiò l'erba del sangue delle loro vene [dei Germani], in cui affondò la nostra spada [di Roma]. Ora sembra che il cielo ci abbia preso in odio, non so per quale malefica congiunzione astrale: per merito vostro [signori d'Italia], ai quali fu affidato l'alto incarico di governo. I vostri desideri contrapposti guastano il più bel paese del mondo.

Quale colpa, quale giudizio o destino vi spinge a infastidire il cittadino povero, a perseguitare le fortune afflitte e disperse, a cercare e apprezzare fuori d'Italia delle genti che spargano il sangue e vendano la loro anima in cambio di denaro? Io parlo per dire la verità, non per odio verso gli altri o per disprezzo.



Non avete ancora capito da tante prove l'inganno dei Bavari [dei mercenari tedeschi] che scherzano con la morte alzando il dito [in segno di resa]? A mio parere, lo scherno è peggiore del danno; ma il vostro sangue sgorga più largamente [di quello dei mercenari], poiché una ben altra ira vi anima.

Nelle prime ore del mattino pensate a voi e capirete quanto questi mercenari, che stimano se stessi così poco, possano stimare voi. O nobile sangue latino, allontana da te questi dannosi pregiudizi; non trasformare in idolo una fama vana, senza costrutto: poiché se la barbarie di quelle terre lassù, gente incolta, ci supera in intelletto, questo è colpa nostra e non una disposizione naturale.



Non è forse questa la terra dove sono nato? Non è questo il nido dove sono stato dolcemente nutrito? Non è questa la patria a cui mi affido, madre benevola e devota, dove sono sepolti entrambi i miei genitori?

Per Dio, questi pensieri vi smuovano la mente e guardate in modo pietoso le lacrime del vostro popolo addolorato, che spera solo da voi sollievo, dopo che da Dio stesso; e purché voi mostriate un qualche segno di pietà, la virtù impugnerà le armi contro la barbarie e la lotta sarà breve: poiché l'antico valore non è ancora morto nei cuori degli Italiani.



O signori, osservate come il tempo vola, come la vita fugge, e la morte ci incalza alle spalle. Voi ora siete qui; pensate a quando morirete: infatti è inevitabile che l'anima nuda e sola giunga a quel cammino dubbioso [alla morte]. Passando dalla valle di questa vita terrena, per favore, deponete l’odio e lo sdegno che sono come venti contrari alla vita serena; e quel tempo che spendete per dare pena agli altri, possa convertirsi in qualche atto più degno, di mano o d'intelletto, in qualche lodevole attività, o in qualche studio decoroso: così si è felici in terra e si trova poi aperta la strada per il cielo.



Canzone, io ti ammonisco a dire le tue ragioni in modo cortese, in quanto dovrai andare tra gente superba, i cui desideri sono pieni dell'antica e pessima usanza [l'adulazione], sempre nemica della verità. Troverai la tua fortuna tra pochi uomini magnanimi a cui piace il bene. Di' loro: "Chi mi protegge? Io vado gridando: Pace, pace, pace".

Analisi metrica 


Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno è la centoventottesima canzone appartenente alla raccolta Canzoniere scritta da Francesco Petrarca

La canzone è formata da sette stanze di sedici versi ciascuna endecasillabi e settenari, con schema della rima AbCBaCcDEeDdfGfG e un congedo di dieci versi il cui schema riprende la sirma (cDEeDdfGfG). 

Il registro linguistico adottato dal poeta presenta i consueti latinismi, tra cui "et" (v. 5), "dilecto" (v. 9), "afflicte" (v. 59), "anchor" (vv. 65, 96, di tipo grafico), "intellecto" (v. 79), "acto" (v. 107), "honesto" (v. 110). 

Il componimento presenta una costruzione retorica estremamente ricercata, visibile ad esempio nella prima stanza con la personificazione dei tre fiumi principali dell'Italia (Tevere, Arno e Po) a indicare gli italiani che si lamentano, con la personificazione dell’Italia come una donna bellissima il cui corpo ha subìto delle ferite e con l'invocazione a Dio sottolineata dall'allitterazione della "t" (vv. 7-9: "Rettor del cielo", "pietà", "Ti condusse in terra", "Ti volga al tuo dilecto"), mentre ai vv. 11-13 c'è l'allitterazione della "c" velare e della "r" in corrispondenza della descrizione della guerra ("di che lievi cagion' che crudel guerra", "e i cor', che 'ndura e serra"...). 

È presente, inoltre, il chiasmo al v. 24 ("Poco vedete... veder molto") e al v. 40 ("fiere selvagge et mansüete gregge", con assonanza del secondo e quarto membro). Nella sesta stanza è visibile l’anafora di "Non" e replicazione di domande retoriche; anafora di "in qualche" ai vv. 109-110. 

Nel congedo Petrarca parla alla canzone dandole alcune raccomandazioni sul tipo di pubblico al quale si rivolgerà, secondo la tradizione due-trecentesca. 

Genesi, sintesi e commento della canzone 

La canzone, unico componimento di tema politico del Canzoniere, trae spunto dalla "vendita" della città di Parma da parte di Azzo da Correggio ad Obizzo d'Este e dalla guerra che ne seguì tra questo e il signore di Mantova Filippino Gonzaga, conflitto che coinvolse anche altre città del Nord Italia. 

Petrarca, nel momento in cui scrive la canzone (1344-1345), si trovava appunto a Parma quando scoppiò la crisi (sulle sponde del Po, come detto al v. 6). 

È evidente che nel corso della canzone tralascerà questo evento particolare per allargarsi in più ampia riflessione alla triste situazione politica italiana, lacerata da sanguinosi conflitti interni tra i signori contrapposti e priva, perciò, di pace e stabilità, secondo una consuetudine ormai consolidata dall'inizio del secolo. 

In questo modo, Petrarca riflette sulle lotte fratricide fra stati italiani e gli stessi non solo in ambito politico ma anche in ambito etico. 

Petrarca è molto accorato per quanto accade in quanto, attraverso una personificazione nei primi tre versi, vede l’Italia afflitta da pieghe mortali che ormai hanno infestato il suo “bel corpo”. 

Preoccupato, si rivolge a Dio affinché tocchi il cuore dei signori d'Italia e li induca a cessare dalle loro ambizioni, la smettano di farsi la guerra e pensino alla salvezza dell'anima, nell'imminenza della morte intesa come passo inevitabile. 

L'autore si collega alla tradizione della grande canzone politica della lirica volgare del Due-Trecento, ad esempio a Guittone d'Arezzo che nella canzone “Ahi lasso, or è stagion de doler tanto” lamentava la sconfitta di Firenze a Montaperti, ma soprattutto si rifà a Dante che nel canto VI della cantica del Purgatorio lanciava una forte invettiva all'Italia in cui esprimeva il suo dolore per la frammentazione politica e lo stato di guerra permanente tra i Comuni a inizio Trecento. 

Nel canto anche Dante aveva invocato l'intervento divino, auspicando un "giudizio" severo nei confronti dell'imperatore asburgico che, a suo dire, trascurava l'Italia per "cupidigia" dei suoi possessi tedeschi. 

A differenza di Dante, tuttavia, Petrarca non nutre più alcuna speranza utopistica nella restaurazione del potere imperiale e, più che un'invettiva, la sua è un'amara considerazione circa il declino politico dell'Italia. 

Fin dall’inizio e per tutta la canzone, Petrarca precisa che tutto ciò che sta per dire sicuramente cadrà nel nulla. 

Tuttavia, si rivolge a Dio affinché il suo intervento possa far risuonare la Sua Verità in questi luoghi profanati attraverso la lingua del poeta, qualunque possa essere il suo valore di intellettuale. 

Petrarca prega di nuovo Dio di intervenire per evitare che il terreno verde dell’Italia sia profanato dalla violenza dei barbari che percorrono luoghi di arte, di cultura, provenendo loro da lande desolate. 

La stessa natura è stata accorta fin dall’inizio a porre le Alpi a confine, ma, nonostante questo, i soliti interessi e la sete di potere continua a richiamare l’attenzione dei barbari. 

Gli eventi hanno fatto in modo che per futili motivi si trovano a scontrarsi “fiere selvagge”(barbari) e “mansuete gregge” (italiani) (metafora vv. 39-41). 

Il poeta, a questo punto, coglie l’occasione per affermare le sue personali convinzioni riguardo la superiorità della razza e della civiltà italiana, nonché della stessa lingua. 

Gli invasori, infatti, che vogliono invadere il popolo italiano sono gli stessi barbari che sono stati allontanati, prima, dal console Gaio Mario (debellò i Teutoni nella battaglia di Aquae Sextiae, nel 102 a.C., bevendo poi nel fiume Arc acqua mista al sangue dei nemici) e, poi, uccisi dal condottiero Giulio Cesare stesso. 

I barbari, però, ritornano convinti che gli italiani, eredi del glorioso passato romano, rispetto a prima, sono un popolo più debole e, in particolare, vengono arruolati come mercenari dai signori, i quali farebbero meglio invece a lasciarli in Germania da cui l'Italia è opportunamente divisa dalle Alpi. 

Con questi versi, Petrarca anticipa un tema che sarà più volte toccato dagli scrittori dell'età successiva e soprattutto dagli autori del Risorgimento, ovvero il declino dell'Italia frammentata politicamente e sottoposta al governo di altri popoli che stride col passato glorioso di Roma. 

La critica all'uso delle milizie mercenarie è racchiusa nelle strofe centrali della canzone e si basa su vari argomenti, tra cui anzitutto la rozzezza e l'inciviltà di questi soldati tedeschi che un tempo vennero dominati da Roma, e poi la loro scarsa efficacia e fedeltà militare, in quanto guerrieri che combattono per interesse e non sono motivati a difendere il loro paese. 

Essi, così, scherzano con la morte "alzando il dito" (il gesto convenzionale in segno di resa) e approfittano dei loro signori, arricchendosi alle loro spalle con grave danno delle terre italiche. 

Petrarca tocca in queste strofe un tema che diverrà di drammatica attualità nei primi anni del Cinquecento e sarà ripreso dai principali scrittori del Rinascimento, come Niccolò Machiavelli in vari passi della sua opera “Principe” in cui parla proprio delle milizie e afferma che queste debbano essere civili e non mercenarie. 

Rivolto alle genti italiche, il poeta aretino afferma che il disprezzo è sicuramente peggiore del danno. 

È con questa affermazione che incita il gentile sangue latino a liberarsi dai soliti pregiudizi per affrontare il “furor de lassù”. 

Egli, comunque, nella terz’ultima strofa si rammarica che il suolo su cui ha camminato da piccolo non è lo stesso di quello attuale. 

Queste considerazioni lo motivano a chiedere, soprattutto, l’intervento di tutti coloro che, presi dall’amore e dall’orgoglio, possono combattere e riuscire a prevalere sul nemico. 

Egli precisa, inoltre, che la vita fugge, il tempo passa velocemente e la morte costantemente ci segue. 

Pertanto, la cosa migliore è deporre l’odio e lo sdegno per credere nella salvezza della propria patria e compiere tante azioni gloriose. 

Nell’ultima strofa, il poeta si rivolge alla canzone che deve svolgere un compito fondamentale: convincere, se ci riesce, coloro che non ricercano la verità, in quanto sono vittime dell’adulazione. 

Essa, inoltre, deve, secondo l’intellettuale, cercare quelli che sono, invece, dotati di un animo generoso, ai quali piace il vero bene: la pace.

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