“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi
La Costituzione italiana risente fortemente del ruolo fondamentale assunto dai partiti politici a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, momento in cui si diffuse una visione politico-istituzionale pluralista.
Nella nuova concezione, il pluralismo politico è lo strumento per la ricostruzione del meccanismo elettorale quale metodo per la scelta dei migliori interpreti degli interessi della Nazione.
I partiti politici assunsero un ruolo decisivo nell’ordinamento provvisorio dopo la caduta del Fascismo, ponendosi come guida del percorso di transizione verso il nuovo assetto costituzionale, che sarebbe stato definito proprio dall’Assemblea costituente.
La Costituzione regola i partiti nella Parte prima al titolo I sui Rapporti civili, prevedendo il diritto di libertà dei cittadini (art. 18 Cost.) ed una norma specifica, l’art. 49, collocata nel titolo IV, dedicato ai rapporti politici.
La libertà dei cittadini di associarsi in partiti politici è tutelata dall’art. 18 Cost. per tutte le espressioni del fenomeno associativo; tuttavia, si esclude il riconoscimento di particolari condizioni di favore per le stesse organizzazioni, se non nei limiti di quanto ragionevolmente correlato alle peculiari finalità del partito politico, così come delineate dall’art. 49 e dalle altre norme costituzionali (art. 1, 72, 82 Cost.) che, sia pure implicitamente, sottintendono l’essenziale funzione dei partiti nell’esercizio del potere sovrano da parte del Popolo e, dunque, nell’assetto della forma di Stato e di governo.
L’art. 49 prevede testualmente: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
I partiti sono, quindi, libere associazioni di liberi cittadini, i quali - accumunati da una medesima visione ideologica o culturale e da un corrispondente programma - concorrono con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale.
Essi sono gli strumenti che tutelano, favoriscono, rendono possibile il diritto di ogni cittadino a partecipare all’attività politica.
Nondimeno, proprio la valenza strumentale dei partiti, enunciata dall’art. 49 Cost., proietta la previsione costituzionale di cui si tratta ben oltre i diritti di libertà, ricollegandola attraverso l’art. 1 Cost., al meccanismo dei rapporti Parlamento-Governo e ai modi di esercizio della sovranità da parte del Popolo.
L’attività dei partiti, anche in assenza di esplicite previsioni in Costituzione, è sempre sottesa al funzionamento delle attività parlamentari e all’attività di governo, pervadendo, anche in forza di consuetudini e convenzioni, tutto il sistema dell’organizzazione costituzionale.
La Costituzione tace, invece, sul fatto di sottoporre a vincoli e verifiche la vita interna dei partiti, anche se la questione venne affrontata dall'Assemblea costituente all’interno della quale prevalse la preoccupazione di scongiurare indebite ingerenze e controlli strumentali da parte dei detentori del potere.
Il n. 413 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa fornisce un ulteriore spunto rispetto al modo di concepire il partito, che diventa un'indicazione in termini di orientamento della sua attività: “I partiti sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere alla formazione delle scelte politiche”.
Nel senso riferito, proprio l’azione dei partiti politici ha avuto un ruolo fondamentale per il progressivo assorbimento delle contrapposizioni politiche, ma anche sociali ed economiche, che attraversavano la società italiana del secondo dopoguerra.
Invero, nonostante le profonde divisioni di natura ideologica, con i noti riflessi di ordine geopolitico, i partiti protagonisti della prima fase della Repubblica, hanno svolto al meglio la loro funzione di integrazione sociale e nazionale, contenendo le disuguaglianze presenti nel nostro Paese, diviso in nord industrializzato e in sud agricolo.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino al 1968, i partiti mostrarono la capacità di incanalare le esigenze sociali nel quadro di una particolare visione dell'interesse generale, svolgendo una funzione di pedagogia politica, essendo in grado di orientare la selezione degli interessi e degli obiettivi da perseguire.
Già dagli anni ottanta, sconfitte le pulsioni antisistema (che avevano raggiunto il punto più alto negli “anni di piombo”) i partiti politici, irrigiditi nei rispettivi ruoli di maggioranza e opposizione, hanno perso gradualmente la capacità di cogliere le istanze dei gruppi sociali di riferimento e di rappresentarle a livello istituzionale. In questo contesto, il partito ha finito per smarrire il fondamentale ruolo di collegamento tra comunità popolare e istituzioni e, di conseguenza, anche la capacità di orientare le preferenze dei cittadini nell’ambito di distinte visioni di sintesi dell’interesse generale.
I partiti sono, quindi, libere associazioni di liberi cittadini, i quali - accumunati da una medesima visione ideologica o culturale e da un corrispondente programma - concorrono con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale.
Essi sono gli strumenti che tutelano, favoriscono, rendono possibile il diritto di ogni cittadino a partecipare all’attività politica.
Nondimeno, proprio la valenza strumentale dei partiti, enunciata dall’art. 49 Cost., proietta la previsione costituzionale di cui si tratta ben oltre i diritti di libertà, ricollegandola attraverso l’art. 1 Cost., al meccanismo dei rapporti Parlamento-Governo e ai modi di esercizio della sovranità da parte del Popolo.
L’attività dei partiti, anche in assenza di esplicite previsioni in Costituzione, è sempre sottesa al funzionamento delle attività parlamentari e all’attività di governo, pervadendo, anche in forza di consuetudini e convenzioni, tutto il sistema dell’organizzazione costituzionale.
La Costituzione tace, invece, sul fatto di sottoporre a vincoli e verifiche la vita interna dei partiti, anche se la questione venne affrontata dall'Assemblea costituente all’interno della quale prevalse la preoccupazione di scongiurare indebite ingerenze e controlli strumentali da parte dei detentori del potere.
Il n. 413 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa fornisce un ulteriore spunto rispetto al modo di concepire il partito, che diventa un'indicazione in termini di orientamento della sua attività: “I partiti sono chiamati ad interpretare le aspirazioni della società civile orientandole al bene comune, offrendo ai cittadini la possibilità effettiva di concorrere alla formazione delle scelte politiche”.
Nel senso riferito, proprio l’azione dei partiti politici ha avuto un ruolo fondamentale per il progressivo assorbimento delle contrapposizioni politiche, ma anche sociali ed economiche, che attraversavano la società italiana del secondo dopoguerra.
Invero, nonostante le profonde divisioni di natura ideologica, con i noti riflessi di ordine geopolitico, i partiti protagonisti della prima fase della Repubblica, hanno svolto al meglio la loro funzione di integrazione sociale e nazionale, contenendo le disuguaglianze presenti nel nostro Paese, diviso in nord industrializzato e in sud agricolo.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sino al 1968, i partiti mostrarono la capacità di incanalare le esigenze sociali nel quadro di una particolare visione dell'interesse generale, svolgendo una funzione di pedagogia politica, essendo in grado di orientare la selezione degli interessi e degli obiettivi da perseguire.
Già dagli anni ottanta, sconfitte le pulsioni antisistema (che avevano raggiunto il punto più alto negli “anni di piombo”) i partiti politici, irrigiditi nei rispettivi ruoli di maggioranza e opposizione, hanno perso gradualmente la capacità di cogliere le istanze dei gruppi sociali di riferimento e di rappresentarle a livello istituzionale. In questo contesto, il partito ha finito per smarrire il fondamentale ruolo di collegamento tra comunità popolare e istituzioni e, di conseguenza, anche la capacità di orientare le preferenze dei cittadini nell’ambito di distinte visioni di sintesi dell’interesse generale.
I partiti sono divenuti autoreferenziali, dando l'impressione di agire quasi esclusivamente per la perpetuazione dei loro ambiti di influenza sul piano politico, sociale ed economico.
In tale fase, dunque, le associazioni partitiche non riescono più a dare voce ai nuovi bisogni emergenti dalla società e si diffondono movimenti di opinione che, in molti casi, riescono ad assumere una stabile consistenza organizzativa e, persino, acquistare una rappresentanza parlamentare.
L’esempio più evidente di tale modello è rappresentato dai movimenti ecologisti, che, nati negli anni ‘70, sono riusciti ad assumere - specialmente a seguito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986 - la fisionomia di un partito tematico e a conseguire una significativa affermazione elettorale.
Nello stesso periodo, le linee di frattura del sistema politico-partitico si sono sviluppate non soltanto sul piano delle istanze tematiche e settoriali, ma anche sul versante delle rivendicazioni autonomiste o, addirittura, secessioniste da parte dei territori più sviluppati del Paese.
Il fenomeno delle Leghe (Liga Veneta e Lega Lombarda, nucleo originario della futura Lega Nord) segna, per la prima volta dall’Unità d’ Italia, il desiderio di una parte politica e della sua base elettorale di giungere alla rottura della solidarietà politica, economica e sociale tra le diverse aree del Paese e, dunque, al superamento dell’unità nazionale.
Tale disegno, almeno nelle sue versioni più radicali, minava la stessa possibilità di concepire l’azione del partito come orientata da un’ organica visione dell’interesse generale; infatti, era proprio l’interesse generale, come interesse dell’intera comunità nazionale, ad essere messo in discussione per venire contrapposto ad una particolare visione degli interessi di certe aree del Paese.
È evidente che già la caratterizzazione tematica dei nuovi movimenti determina un primo serio problema per il funzionamento della forma di governo e, più, in generale dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione.
Invero, nel momento in cui frazioni sempre più robuste della rappresentanza parlamentare esprimono istanze settoriali, slegate da una visione complessiva dell’interesse generale, si interrompe quel circuito che, attraverso i partiti, determinava la rappresentazione a livello parlamentare delle istanze delle comunità, nonché l’organica rappresentazioni di sintesi del bene comune.
All’inizio degli anni Novanta si assiste alla crisi del primo modello di partito politico, esplosa con il fenomeno di Tangentopoli, i partiti politici avevano assunto un’influenza decisiva, a partire dalla fase di formazione del Governo nell’ambito della procedura consuetudinaria delle consultazioni.
Tale delicatissima fase della vita della Repubblica era stata, infatti, retta a lungo dalla regola convenzionale secondo cui ai partiti era demandata, oltre la scelta della formula politica che avrebbe dovuto esprimere la maggioranza di Governo, anche l’individuazione del Presidente del Consiglio, formalmente incaricato dal Capo dello Stato, e dei Ministri, solo proposti dal primo al secondo in base all’art. 94 Cost.
In senso analogo, i partiti presenti in Parlamento (a prescindere dall’appartenenza di ciascuno alla maggioranza o all’opposizione) esercitavano la funzione di direzione dei processi decisionali che conducevano all’elezione o alla nomina dei componenti di altri organi costituzionali o a rilevanza costituzionale, secondo ben precisi equilibri definiti in altrettante convenzioni costituzionali.
I maggiori partiti nazionali, inoltre, proiettavano la loro forza unificante e le loro visioni di sintesi dell’interesse generale in tutti i livelli territoriali di governo ed anche negli indirizzi politico-amministrativi degli enti pubblici, retti da organi non direttamente legittimati dal corpo elettorale.
In quegli stessi anni cresceva la domanda di governabilità e le istanze di partecipazione diretta dei cittadini alla scelta degli Esecutivi, cui avrebbe dovuto corrispondere il contenimento del ruolo dei partiti nel complessivo regime politico.
Tali tendenze, tuttavia, non si concretizzarono sul piano istituzionale poiché i riferiti caratteri della democrazia consensuale si traducevano in un’ obiettiva difficoltà di riformare il sistema istituzionale.
Tale circostanza, in realtà, era determinata dalla combinazione tra la procedura aggravata della revisione costituzionale (art. 138 Cost.) e la legge elettorale proporzionale, ma anche dalla logica complessiva del sistema politico-istituzionale, che, in quanto tradizionalmente consensuale o consociativo, tendeva a scoraggiare riforme che avrebbero potuto alterare i delicati equilibri frutto della costituzione materiale sottesa alla Carta repubblicana del 1948.
Per tali ragioni, qualsiasi ipotesi di riforma istituzionale si scontrava con il deciso rifiuto dei partiti di mettere in discussione il principio della centralità del Parlamento.
Fu, dunque, proprio il progressivo distacco della società civile dal tradizionale sistema dei partiti ad imprimere (con una iniziativa referendaria che ha consentito di scavalcare trasversalmente le forze politiche rappresentate in Parlamento) una forte accelerazione al superamento del presupposto della democrazia consensuale (o consociativa), vale a dire la legge elettorale proporzionale che aveva segnato, sin dalle origini, la forma di governo italiana.
A partire dal 1990, infatti, il Comitato promotore dei referendum elettorali avviò due successive campagne referendarie che condussero, dapprima, all’abrogazione delle preferenze multiple, spesso utilizzate come strumento di controllo del voto; successivamente all’introduzione di un sistema misto, ma prevalentemente maggioritario.
Non vi è dubbio che le nuove leggi elettorali hanno consentito la formazione di coalizioni di centro-destra e centro-sinistra, che si sono alternate alla guida del Paese a partire dalle elezioni del 1994 .
I due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, invero, nel corso delle loro esperienze di governo hanno assistito a processi di sfilacciamento interno che, in taluni casi, hanno condotto a crisi di governo e, in altri, a vere e proprie paralisi istituzionali.
Il diffuso sentimento di sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali ha determinato la nascita di movimenti di opinione incentrati su obiettivi di moralizzazione pubblica, capaci di catalizzare percentuali, talvolta, assai consistenti di consenso, erodendolo, in modo trasversale, da quello dei partiti tradizionali.
Questo contesto ha reso, spesso, difficile la formazione di maggioranze politiche coese e capaci di sostenere un Governo in grado di reagire alle sollecitazioni provenienti dal difficile scenario geopolitico ed economico.
A ciò si aggiunge la crisi della stessa rappresentanza politica atteso che, di fronte alle trasformazioni delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, i suoi meccanismi di funzionamento sono percepiti anacronistici dagli elettori.
L’interattività e il largo uso di mezzi di comunicazione di massa sono proprio ciò che distingue quest’ultima fase di forma democratica dalla precedente, la quale era costretta dall’unidirezionalità dei suoi messaggi.
In tale fase, dunque, le associazioni partitiche non riescono più a dare voce ai nuovi bisogni emergenti dalla società e si diffondono movimenti di opinione che, in molti casi, riescono ad assumere una stabile consistenza organizzativa e, persino, acquistare una rappresentanza parlamentare.
L’esempio più evidente di tale modello è rappresentato dai movimenti ecologisti, che, nati negli anni ‘70, sono riusciti ad assumere - specialmente a seguito del disastro nucleare di Chernobyl del 1986 - la fisionomia di un partito tematico e a conseguire una significativa affermazione elettorale.
Nello stesso periodo, le linee di frattura del sistema politico-partitico si sono sviluppate non soltanto sul piano delle istanze tematiche e settoriali, ma anche sul versante delle rivendicazioni autonomiste o, addirittura, secessioniste da parte dei territori più sviluppati del Paese.
Il fenomeno delle Leghe (Liga Veneta e Lega Lombarda, nucleo originario della futura Lega Nord) segna, per la prima volta dall’Unità d’ Italia, il desiderio di una parte politica e della sua base elettorale di giungere alla rottura della solidarietà politica, economica e sociale tra le diverse aree del Paese e, dunque, al superamento dell’unità nazionale.
Tale disegno, almeno nelle sue versioni più radicali, minava la stessa possibilità di concepire l’azione del partito come orientata da un’ organica visione dell’interesse generale; infatti, era proprio l’interesse generale, come interesse dell’intera comunità nazionale, ad essere messo in discussione per venire contrapposto ad una particolare visione degli interessi di certe aree del Paese.
È evidente che già la caratterizzazione tematica dei nuovi movimenti determina un primo serio problema per il funzionamento della forma di governo e, più, in generale dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione.
Invero, nel momento in cui frazioni sempre più robuste della rappresentanza parlamentare esprimono istanze settoriali, slegate da una visione complessiva dell’interesse generale, si interrompe quel circuito che, attraverso i partiti, determinava la rappresentazione a livello parlamentare delle istanze delle comunità, nonché l’organica rappresentazioni di sintesi del bene comune.
All’inizio degli anni Novanta si assiste alla crisi del primo modello di partito politico, esplosa con il fenomeno di Tangentopoli, i partiti politici avevano assunto un’influenza decisiva, a partire dalla fase di formazione del Governo nell’ambito della procedura consuetudinaria delle consultazioni.
Tale delicatissima fase della vita della Repubblica era stata, infatti, retta a lungo dalla regola convenzionale secondo cui ai partiti era demandata, oltre la scelta della formula politica che avrebbe dovuto esprimere la maggioranza di Governo, anche l’individuazione del Presidente del Consiglio, formalmente incaricato dal Capo dello Stato, e dei Ministri, solo proposti dal primo al secondo in base all’art. 94 Cost.
In senso analogo, i partiti presenti in Parlamento (a prescindere dall’appartenenza di ciascuno alla maggioranza o all’opposizione) esercitavano la funzione di direzione dei processi decisionali che conducevano all’elezione o alla nomina dei componenti di altri organi costituzionali o a rilevanza costituzionale, secondo ben precisi equilibri definiti in altrettante convenzioni costituzionali.
I maggiori partiti nazionali, inoltre, proiettavano la loro forza unificante e le loro visioni di sintesi dell’interesse generale in tutti i livelli territoriali di governo ed anche negli indirizzi politico-amministrativi degli enti pubblici, retti da organi non direttamente legittimati dal corpo elettorale.
In quegli stessi anni cresceva la domanda di governabilità e le istanze di partecipazione diretta dei cittadini alla scelta degli Esecutivi, cui avrebbe dovuto corrispondere il contenimento del ruolo dei partiti nel complessivo regime politico.
Tali tendenze, tuttavia, non si concretizzarono sul piano istituzionale poiché i riferiti caratteri della democrazia consensuale si traducevano in un’ obiettiva difficoltà di riformare il sistema istituzionale.
Tale circostanza, in realtà, era determinata dalla combinazione tra la procedura aggravata della revisione costituzionale (art. 138 Cost.) e la legge elettorale proporzionale, ma anche dalla logica complessiva del sistema politico-istituzionale, che, in quanto tradizionalmente consensuale o consociativo, tendeva a scoraggiare riforme che avrebbero potuto alterare i delicati equilibri frutto della costituzione materiale sottesa alla Carta repubblicana del 1948.
Per tali ragioni, qualsiasi ipotesi di riforma istituzionale si scontrava con il deciso rifiuto dei partiti di mettere in discussione il principio della centralità del Parlamento.
Fu, dunque, proprio il progressivo distacco della società civile dal tradizionale sistema dei partiti ad imprimere (con una iniziativa referendaria che ha consentito di scavalcare trasversalmente le forze politiche rappresentate in Parlamento) una forte accelerazione al superamento del presupposto della democrazia consensuale (o consociativa), vale a dire la legge elettorale proporzionale che aveva segnato, sin dalle origini, la forma di governo italiana.
A partire dal 1990, infatti, il Comitato promotore dei referendum elettorali avviò due successive campagne referendarie che condussero, dapprima, all’abrogazione delle preferenze multiple, spesso utilizzate come strumento di controllo del voto; successivamente all’introduzione di un sistema misto, ma prevalentemente maggioritario.
Non vi è dubbio che le nuove leggi elettorali hanno consentito la formazione di coalizioni di centro-destra e centro-sinistra, che si sono alternate alla guida del Paese a partire dalle elezioni del 1994 .
I due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, invero, nel corso delle loro esperienze di governo hanno assistito a processi di sfilacciamento interno che, in taluni casi, hanno condotto a crisi di governo e, in altri, a vere e proprie paralisi istituzionali.
Il diffuso sentimento di sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali ha determinato la nascita di movimenti di opinione incentrati su obiettivi di moralizzazione pubblica, capaci di catalizzare percentuali, talvolta, assai consistenti di consenso, erodendolo, in modo trasversale, da quello dei partiti tradizionali.
Questo contesto ha reso, spesso, difficile la formazione di maggioranze politiche coese e capaci di sostenere un Governo in grado di reagire alle sollecitazioni provenienti dal difficile scenario geopolitico ed economico.
A ciò si aggiunge la crisi della stessa rappresentanza politica atteso che, di fronte alle trasformazioni delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, i suoi meccanismi di funzionamento sono percepiti anacronistici dagli elettori.
L’interattività e il largo uso di mezzi di comunicazione di massa sono proprio ciò che distingue quest’ultima fase di forma democratica dalla precedente, la quale era costretta dall’unidirezionalità dei suoi messaggi.
In tale quadro, nei processi di formazione dell’opinione pubblica, i partiti vengono spesso scavalcati e gli elettori tendono a ricercare una relazione diretta con i propri rappresentanti attraverso mezzi di comunicazione “non convenzionali” rispetto ai classici modelli della democrazia rappresentativa (blog e social network).
Tale relazione immediata tra rappresentante e rappresentato tende a indebolire ulteriormente il legame del primo con il proprio partito e con il corrispondente gruppo parlamentare, che non è più in grado di imporre nelle aule parlamentari le scelte determinate in seno ai competenti organi direttivi.
In effetti, dopo Tangentopoli e il progressivo declino dei partiti tradizionali, i passaggi più delicati del nostro Paese sono stati tante volte affidati alla cura di “governi tecnici”, la cui investitura può essere ricondotta solo formalmente alle maggioranze espresse dai partiti in Parlamento.
La crisi della funzione dei partiti come collegamento tra la comunità e le istituzioni, tra gli enti e i poteri pubblici, rende ancora più urgente un intervento di revisione costituzionale che favorisca il rinnovamento dei circuiti di legittimazione democratica nel collegamento tra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e Governo, secondo il modello della democrazia d’investitura tracciato dall’art. 49 Cost.
Tale relazione immediata tra rappresentante e rappresentato tende a indebolire ulteriormente il legame del primo con il proprio partito e con il corrispondente gruppo parlamentare, che non è più in grado di imporre nelle aule parlamentari le scelte determinate in seno ai competenti organi direttivi.
In effetti, dopo Tangentopoli e il progressivo declino dei partiti tradizionali, i passaggi più delicati del nostro Paese sono stati tante volte affidati alla cura di “governi tecnici”, la cui investitura può essere ricondotta solo formalmente alle maggioranze espresse dai partiti in Parlamento.
La crisi della funzione dei partiti come collegamento tra la comunità e le istituzioni, tra gli enti e i poteri pubblici, rende ancora più urgente un intervento di revisione costituzionale che favorisca il rinnovamento dei circuiti di legittimazione democratica nel collegamento tra corpo elettorale, maggioranza parlamentare e Governo, secondo il modello della democrazia d’investitura tracciato dall’art. 49 Cost.
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