“Dubliners” is a collection of fifteen short stories written by James Joyce in which the author analyses the failure of self-realisation of inhabitants of Dublin in biographical and in psychological ways. The novel was originally turned down by publishers because they considered it immoral for its portrait of the Irish city. Joyce treats in “Dubliners” the paralysis of will in four stages: childhood, youth, maturity and public life. The paralysis of will is the courage and self-knowledge that leads ordinary men and women to accept the limitations imposed by the social context they live in. In “Dubliners” the style is both realistic - to the degree of perfectly recreating characters and idioms of contemporary Dublin - and symbolic – giving the common object unforeseen depth and a new meaning in order to show a new view of reality. Joyce defines this effect “epiphany” which indicates that moment when a simple fact suddenly explodes with meaning and makes a person realise his / her condi
Durante il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, tenutosi a Livorno presso il teatro Goldoni dal 15 al 21 gennaio 1921, con la partecipazione di 2.500 delegati, una rappresentanza di delegati della Federazione Giovanile Socialista guidata da Amadeo Bordiga, Filippo Turati, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, abbandonò i compagni e si spostò al teatro San Marco dove fondò il Partito comunista d’Italia, sezione della III Internazionale (21 gennaio).
Il motivo della scissione dal Partito socialista risale alla bocciatura da parte della maggioranza del congresso socialista della mozione dei “21 punti” elaborati dallo stesso Lenin come condizione per l’adesione all’Internazionale comunista.
Pochi anni prima, la Rivoluzione d’ottobre ha rovesciato il governo provvisorio sorto sulle ceneri del regime zarista e instaurato la Repubblica Socialista Federativa Sovietica.
I partiti socialisti d’Occidente dovettero decidere, a loro volta, se seguire l’esempio russo o solidarizzare con “il mondo borghese”. La frazione comunista guidata da Bordiga si fece portavoce dei diktat sovietici: espellere i centristi, cambiare nome in “partito comunista” e creare una struttura militare clandestina.
La sua mozione, però, non venne approvata e la minoranza abbandonò il teatro Goldoni e si riunì nel vicino teatro San Marco per fondare il Partito Comunista d’Italia. Coloro che parteciparono al rito furono i tre futuri segretari – Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti – e il 27enne Umberto Terracini, che nel 1947 contribuì a scrivere la Costituzione.
Mantenne la denominazione di Partito comunista d’Italia - Sezione italiana dell’Internazionale comunista fino al giugno 1943, quando venne modificata in Partito comunista italiano.
I primi anni di vita del nuovo partito politico furono caratterizzati, da un lato, dalla sconfitta del movimento operaio e dalla reazione fascista, dall’altro dal rapido spostarsi del gruppo dirigente, guidato da Bordiga, sulle posizioni dell’ala sinistra dell’Internazionale.
Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni all’interno del partito e la decisione dell’Internazionale (1923) di sostituire la direzione bordighiana con un esecutivo che includesse l’opposizione di destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci, che diede avvio a un nuovo corso (sancito dal congresso di Lione del 1926) e consolidò la presenza del partito nella società. Con la promulgazione delle “leggi speciali” e l’arresto di Gramsci (8 novembre 1926), il PCd’I entrò nella clandestinità.
Gli anni tra il 1927 e il 1943, a causa della repressione del regime fascista, segnarono per i militanti la stretta tra la clandestinità e l’esilio.
Nel 1927 la direzione del partito fu, di fatto, trasferita a Mosca, dove emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a Palmiro Togliatti. Il partito tornò sulla scena politica nazionale dopo l’armistizio dell′8 settembre 1943, svolgendo un ruolo importante nella lotta contro il nazifascismo.
La ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944), con la cosiddetta ‘svolta di Salerno’: il segretario comunista indicò al partito l’unità antifascista come premessa di un radicamento nella società che sarebbe scaturita dalla liberazione.
L’idea guida di Togliatti era che la trasformazione socialista dell’Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica.
Conseguentemente il Pci fece parte dei governi dell’Italia democratica fin dal Regno del Sud e, dopo la liberazione, partecipò alla ricostruzione economica e politica ed estese la sua influenza nella società attraverso una capillare rete di sezioni territoriali; ebbe una cospicua presenza nella maggiore organizzazione sindacale (Cgil), dispose di un diffuso organo di stampa (“l’Unità”), e fu costantemente presente negli enti locali.
Escluso dal governo, insieme con il Psi, nel 1947, il Pci costituì da allora la maggiore forza politica di opposizione. La denuncia dello stalinismo operata da Nikita Krusciov nel XX congresso del Pcus e l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) costrinsero il Pci a un’ampia riflessione sulla propria strategia e sul socialismo realizzato: nell’VIII congresso (1956) il partito iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico, accentuando sul piano della politica interna gli aspetti democratici e gradualisti già presenti nell’elaborazione togliattiana.
Con Luigi Longo, che successe alla segreteria del partito alla morte di Togliatti (1964), il Pci colse il successo del 26,9% nelle elezioni del 1968.
La stagione delle lotte operaie e il processo di unità sindacale determinarono nei primi anni Settanta nuove attenzioni e aspettative verso la politica del Pci, cui il nuovo segretario Enrico Berlinguer rispose con la strategia del ‘compromesso storico’ (1973), una proposta di collaborazione con le forze cattoliche e socialiste per il rinnovamento del Paese.
La proposta, dopo le ulteriori affermazioni elettorali del Pci (tra queste, il 34,4% nel 1976) anche a livello europeo, si concretizzò, dapprima, nell’accordo sull’astensione al governo presieduto da Giulio Andreotti (1976), poi sul voto al nuovo monocolore Andreotti, inaugurato nel giorno del rapimento dello statista democristiano Aldo Moro, il 16 marzo 1978, da parte dei terroristi delle Brigate Rosse.
La fase di “solidarietà nazionale” ebbe termine nel 1979 con la decisione comunista di uscire dalla maggioranza, mentre iniziava un trend elettorale negativo.
A livello internazionale, l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) e la proclamazione della legge marziale in Polonia (1981) segnarono un’ulteriore differenziazione dall’Urss, con la dichiarazione di Berlinguer circa l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione sovietica (1981) e la necessità di un nesso fra democrazia e socialismo.
Il mito dell’Unione Sovietica inizia, così, a incrinarsi e tra le conseguenze di questa linea c’è la riduzione dei finanziamenti sovietici alle casse del Pci.
Nel 1984 morì Berlinguer e il nuovo segretario generale fu Alessandro Natta.
Il dato elettorale continuò a evidenziare una fase di grave difficoltà con un calo di consensi al 26,6% nel 1987.
Con la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 e la dissoluzione dell’Urss nei Paesi Est europei, la storia del Pci è al tramonto. sotto la guida di Achille Occhetto avviò una profonda fase di trasformazione (la svolta della Bolognina avvenuta nel quartiere Navile di Bologna), culminata nel 1991 nello scioglimento del partito (il congresso si tenne a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio) e nella contestuale costituzione del Partito democratico della sinistra.
L’ala più intransigente, contraria al cambiamento, diede vita al Partito della rifondazione comunista.
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